La Vergine Nera

gargoile_trasparente

30.1.1995

«X il mio n° 1 in tutto e per tutto, mi giurasti Amore eterno, giurasti di non lasciarmi mai da sola… ma per colpa di qualcuno siamo stati separati dieci maledetti giorni. L’incubo più brutto della mia vita.
C’è stato un problema, anzi due: tu non c’eri, ma c’erano degli avvoltoi che in minima parte sono riusciti a “sporcare” la mia bianca pelle. E io ero d’accordo, perché la mia vita senza te “non era più vita”. Al terzo buco sei riapparso tu, mi hai sentito, ne sono sicura, hai sentito che avevo bisogno di te. Ringrazio te e 666. Ora che ho avuto modo di provarlo posso dirlo, senza di te non sono niente e nessuno. Ti prego di non rovinare tutto. Che dire ancora? Grazie amori miei. 666!» [Nota 7]


Oggi lei non c’è più: è morta! La sua forma si è dissolta, la sua Consolatrice ha terminato la sua Opera, e lui, con il cuore dilaniato dal dolore ma l’animo esultante, vuole mantenere una promessa. Lo giurò a Laura, una delle Eterne Immagini dello Spirito che si immola in nome di Sé! Le disse che avrebbe posto l’anima della Prostituta, l’anima che per prima volle rivestire consapevolmente il ruolo di Compagna dell’Anticristo, sul piedistallo più alto. Il caso li fece incontrare perché aveva ancora l’animo di una bambina e sentiva come pochi il bisogno di essere amata; forse fu questo che la spinse a tentare di strappare il nero velo d’orgoglio che avvolge la sua sposa e non la lascia libera di riavvicinarsi a lui. Laura sapeva che anche lei desiderava l’amore ma intuiva che non era più in grado di riconoscere il particolare aspetto con cui lui lo manifestava.

Ed ecco, ci sono alcuni tra gli Ultimi che saranno tra i primi… e alcuni tra i primi che saranno ultimi.” Luca: 13/30

Molte delle profetiche parole attribuite al Cristo si sono puntualmente realizzate, queste in particolare, si rivelano essere un chiaro riferimento ad anime eccezionali; anime come Laura, la protagonista di una parte importante del racconto. Lei ricoprì un ruolo che fu fonte di dolore ma giunse in un momento particolare della sua vita. Fu il caso a portarla sulla sua strada, quando ebbe bisogno del suo insostituibile aiuto per realizzare il suo disegno. Non è semplice capire perché ogni volta che lo scritto necessitava di qualche elemento significativo, esso si presentava spontaneamente per farsi utilizzare.
Un aiuto a comprenderlo verrà certamente dalle poche righe che le sono state dedicate, vanno lette con attenzione poiché vi si troveranno molti indizi utili.
Ogni animo vorrà chiedersi se fu il caso che consentì di trovare sepolta nel fango una perla così rara. Il consiglio è che si ascolti la risposta dello Spirito, Lui non inganna e solo Lui sa ciò che lui sa; quando si vedrà il Disegno si inizierà a colorarlo liberamente.

“Siate come i fanciulli, è stato scritto, poiché di essi è il Regno dei Cieli…” “Che sta scendendo sulla terra e rende sempre più consapevoli gli uomini.

Laura avrebbe potuto continuare a “recitare” il suo ruolo ma il loro Spirito sapeva che non sarebbe stato così. Per essere simile a Lui avrebbe dovuto percorrere la sua stessa strada, porsi le stesse angosciose domande e compiere la medesima scelta: perseguire la sua felicità oppure quella dell’Altro. Lei rifiutò la propria e scelse l’Altro. Le lacrime che sta versando e che non cesserà mai di versare, ogni volta che la sua Forma penserà alla Sua, serviranno a far fiorire il seme che hanno deposto nei altri vostri cuori.
Questa non sarebbe una rivelazione se venisse raccontato ciò che tutti sanno, per cui si parlerà di ciò che una fortuita coincidenza ha permesso di scorgere: l’animo meraviglioso dell’ultima delle donne… l’Anima di Laura.

Il loro incontro avvenne come al solito per caso. Quella sera, seduto al tavolo di un bar, la vide avvicinarsi con l’intento di adescarlo: «Senti, ti posso parlare un attimo?…»
«Certo, dimmi…»
«Possiamo uscire?… Voglio chiederti…, – non continuò, si diresse alla porta precedendolo e, quando furono all’esterno, riprese come ti sembro, una bella ragazza… oppure no?».
Non era abituato ad attacchi così diretti e rimase alcuni istanti ammutolito. Lei attese la risposta seguendo il suo sguardo sul suo corpo.
«Non ti offendere, sei come una statua perfetta che a nessuno è concesso ammirare».
«Ascoltami, scusa se insisto ma ho assoluto bisogno di raggiungere una certa cifra, devo trovare duecentomila lire ma a te chiedo solo un biglietto da cinquanta per farti passare due ore piacevoli. Se tu potessi darmi almeno una parte del denaro che mi serve…».
Non la lasciò proseguire: “Al di là di ogni altra considerazione, devi sapere che sono sposato e padre di tre bambine, per me il discorso che fai, con tutto ciò che ne consegue è chiuso, non lo riaprirei nemmeno se tu fossi la donna più bella della terra».
Rimase un attimo silenziosa, poi continuò: «Potresti almeno accompagnarmi in via Trento? Devo assolutamente tornare a casa con dei soldi, altrimenti… vedi… ?». Così dicendo chinò il capo e spostò i capelli castano chiari.
«Guarda, mi hanno bastonato a sangue, ho sette punti sotto questa benda e sono tutta nera per i calci ricevuti».
Sollevò di poco la maglietta per far notare i lividi sparsi sul corpo.
«Ascolta, per quanto riguarda via Trento, non puoi chiedermi di condurti in quel posto per farti insozzare ma fammi capire chi è stato a causarti quelle ferite e perché».
«Mi hanno accusato di aver rubato ma non è vero; si sono presi tutti i miei vestiti, ho solo questi jeans e questa maglietta; se non ritorno con i soldi che mi hanno richiesto me ne danno altre. Ho paura… aiutami… ti prego; dammi ciò che puoi, se mi lasci il tuo indirizzo, cercherò di tornarteli appena possibile… te lo giuro».
«Non posso dare pure un premio a chi ti ha fatto del male».
La risposta dovette sembrarle una sentenza irrevocabile, poiché la tenue speranza di racimolare quattro soldi, senza farsi umiliare, l’abbandonò e chinò la testa.
«Fammi bere solo una birra,» sussurrò. «devo essere ubriaca, non devo capire più niente, altrimenti non riesco a farlo».
Stava piangendo ora, la linea del collo e le spalle, che parevano tornite sul modello d’un capolavoro scultoreo, sussultavano a tratti. Con dei gesti scattanti cominciò a rovistare inutilmente nella borsetta alla ricerca delle sigarette.
«Puoi farmi almeno fumare?». disse alla fine.
«Mi dispiace, non fumo, però se mi accompagni fino al tabaccaio te le compero. Credo che nella tua situazione esse siano il male minore; ci passo davanti e avrai il tempo per spiegarti meglio e io vedrò se posso aiutarti».
Riascoltò la sua storia e si convinse che stava dicendo la verità. A quel punto pensò di dover fare qualcosa, non poteva fingere di ignorarla, se il giorno seguente il giornale avesse scritto di lei e d’un suo atto inconsulto, non sarebbe riuscito a perdonarselo. Alla fine, le propose di accompagnarla a casa.
«Credo non cerchino la lite se vedono un uomo vicino a te, tu bada solo a non agire d’impulso, forse riuscirò a farti restituire le tue cose. Agiremo d’astuzia e faremo credere che in caso contrario dovranno vedersela con un maresciallo dei carabinieri che conosco, lo considero uno ksatrya, un guerriero e se gli racconti il tuo problema saprà certamente risolverlo.»
Immaginò il suo sforzo per comprendere le ultime parole e le spiegò che le manie esterofile non si limitavano ai vocaboli in lingua inglese ma si stavano assimilando, per merito delle associazioni di yoga, anche parole dell’estremo oriente; dove anticamente veniva chiamato ksatrya chiunque portasse un’arma.
Aveva usato di proposito quel termine inconsueto per sottrarla alle sue paure, costringendola a pensare ad altro ma lei non condivideva la sua sicurezza e si mostrò titubante.
«Sono dei bastardi, non voglio essere trattata pure come una infame… e da quella gente poi.» – aggiunse con fierezza. –
«Ma cosa stai dicendo?» – chiese stupito da tanta ingenuità, – «Con il nemico che si dimostra subdolo in nessun caso puoi permetterti di essere leale. Conformandoti a quel genere di lealtà che loro si aspettano da te perdi in partenza, pensaci attentamente, i primi a venir meno alla legge di omertà sono proprio loro, perché se io li attaccassi improvvisamente e li ferissi in modo serio, credi veramente che terrebbero la bocca cucita? Appena in grado di parlare, direbbero a tutti di esser stati aggrediti senza motivo da un pazzo furioso».
Erano nel frattempo tornati alla macchina e, al momento di salire, lo pregò di passare prima per casa di una sua amica.
«Avanzo da tempo cinquantamila lire e ora mi è tornato in mente… sarà un aiuto comunque vada sospirò».
«D’accordo, andiamo».
Mentre guidava, di tanto in tanto le lanciava un rapido sguardo: sembrava profondamente abbattuta ma, dal profondo dell’animo, il pensiero che volesse servirsi di lui per procurarsi il denaro per bucarsi e continuare a distruggersi, lo ferì. “Hai trovato chi darebbe la vita per te – pensò con amarezza – e lo tratti così, lo inganni anche tu”.
Sarà stato a causa della musica peruviana diffusa dallo stereo ma sentiva la commozione rigargli con qualche lacrima il volto teso. Turbato, da quella eccessiva partecipazione ai problemi esistenziali della ragazza, passò nervosamente una mano per asciugare gli occhi. Evitò per un pelo il frontale con la macchina che proveniva dalla direzione opposta. Lei era persa nei suoi pensieri e non si rese conto del pericolo evitato per un soffio.
Arrivati sul posto, dovette attenderla a lungo ma ne valse la pena, perché al ritorno disse che il padre della sua amica, per telefono, aveva convinto il suo a riceverla in casa.
«Dovresti deciderti a rimanere ospite da tuo padre per qualche tempo, andate d’accordo?».
Azzardò quella proposta mentre scendevano le scale in direzione dell’auto.
«Non molto, però l’adoro».
Era tardi quando arrivarono e quella notte rimase a dormire lì. Sul portone, al momento di salutarlo, chiese un ultimo favore: «Potresti passare domattina alle nove per accompagnarmi in via Flavia, dove abito? Non portando il denaro devo aspettarmi di tutto da loro».
«D’accordo, verrò!… Ciao!».
«Ciao… vieni ti prego».
«Non preoccuparti, non ho mai rifiutato il mio aiuto a chi me lo ha chiesto con tanta insistenza».
Il mattino dopo passò a prenderla; quel giorno come anche in seguito, si fece attendere a lungo, era una sua consolidata abitudine. Poi, seguendo le sue indicazioni, la portò in via Flavia nella casa occupata abusivamente.
Si trattava di una camera e un gabinetto di uno squallore estremo. Il carattere dei vicini, lo constatò malvolentieri al primo impatto, non era affatto migliore.
Appena giunti, Laura bussò alla porta del piano sottostante il suo alloggio; sperava di farsi restituire gli abiti che il suo creditore le aveva sottratto dopo averle vuotato l’armadio e forse di ottenere una dilazione del debito.
Pareva fossero attesi, poiché la litania di bestemmie e imprecazioni, che giungeva ovattata attraverso le larghe fessure della porta, salì di tono.
Un tipo allampanato, a stento trattenuto dalla donna alle sue spalle, si sistemò allargando le gambe davanti alla porta. Vista la ragazza al suo fianco, con ira allungò immediatamente una mano, mentre con l’altra prese a colpirne rabbiosamente il palmo.
«Devo avere le duecentomila lire altrimenti, con tutta la tua roba, riempio i sacchi delle immondizie e poi la brucio».
Mentre pronunciava quelle parole, dagli occhi pareva sprigionare odio rovente. Era il caso di prenderlo in parola, per accendere quelle poche cose, sarebbe bastato uno sguardo di quel genere.
«Sentimi bene,» ringhiò spazientito. «tu non puoi agire così, lei potrebbe denunciarti per quello che stai facendo».
Rivolgendogli quella assurdità, vedeva i suoi occhi carichi di sufficienza e quasi si meravigliò di non sentirsi un ipocrita. Sicuramente davanti a lui appariva un uomo interessato a una situazione che non lo riguardava, con l’unico scopo di ricavare qualche vantaggio inconfessabile. Nessun giudice avrebbe potuto dar peso alle parole di una Laura. “Solo Erieder poteva udire le urla degli ultimi che chiedevano giustizia?” Questa amara riflessione lo spinse a cambiare tattica.
Intanto l’energumeno alto e magro, togliendosi la camicia, riprese a urlare: «Non mi interessa, noi possiamo dire di averla vista rubare e siamo in molti.» Nel frattempo, richiamati dal trambusto, sul pianerottolo si erano radunati quasi tutti gli occupanti dello stabile. Uno a uno cominciarono a inveire contro di lei.
«Urla sempre, non si può nemmeno dormire».
«Fa di tutto con gli uomini in atrio.» sbraitò una tipa d’aspetto incredibilmente laido. «Il suo ganzo mi ha minacciato e s’è messo pure a sparare per le scale. Lei deve andarsene da questa casa, deve sparire per sempre altrimenti ci pensiamo noi, deve lasciarci in pace».
A quel punto non rimaneva altro da fare che pagare la somma richiesta. Strano, sebbene tutto lo portasse a credere che non fosse una vittima innocente, senza nemmeno capire il perché si sentì gli occhi umidi di pianto. Cercò nel suo animo un pretesto che giustificasse quella improvvisa debolezza. Lo trovò immaginando per un istante una delle sue bambine ridotta in quello stato, capace di suscitare negli altri solo odio e disprezzo., se fosse stata lei nel fango, non avrebbe cercato di ripulirla?… E, in quello stesso istante, sentì di amarla.
Aveva perso la volontà e la forza di lottare contro ogni ingiustizia solo pochi attimi prima di conoscerla; per questo si era rivolto al Padre, e ora, il suo proposito di combattere era rinato più forte che mai.

La guerra, come una fiamma che lo stesse tenendo in vita, era divampata nuovamente. “Poteva trattarsi semplicemente di un caso? Era lei che stava porgendogli la spada che aveva lasciato cadere.”
«Beh! Ragazzi, cerchiamo di essere ragionevoli – disse ai presenti, cercando di nascondere la sua emozione – potremmo scegliere un compromesso: la metà della somma subito, in cambio della metà degli indumenti… siete d’accordo?… Domani avrete il resto».
Il giorno seguente tornò in quel palazzone fatiscente per vedere se tutto si fosse appianato e si rese conto che il problema non era più rappresentato solo dai suoi quattro stracci.
Ora aveva davanti un enigma inaspettato. C’era qualcosa di strano in ciò che stava accadendo che suscitava la sua curiosità.
Al terzo piano di quel deprimente caseggiato, in quel tugurio che, senza un immenso ottimismo, non si sarebbe potuto chiamare alloggio, stava osservando dei particolari sparsi qua e là che sembravano voler irriderlo.
Sulle pareti della stanza, vedeva incollati dei fogli di carta con sopra tracciate delle croci rovesciate e ovunque i tre sei, parevano posti a suggello di testi musicali. Erano scritti direttamente sul muro annerito dal fumo delle sigarette.
Alla inevitabile richiesta di spiegazioni, lei confidò che il suo attuale compagno era un patito dell’occulto e in particolare d’ogni elemento che ricordasse el diablo. Aggiunse di avere i tre sei tatuati sulla pelle e di essere stata lei a volerli.
Era piuttosto sconcertato, che ne poteva sapere di temi come la religione o la ricerca filosofica. Cosa riusciva a intuire del suo pensiero, o piuttosto del mistero attorno alla figura che veniva indicata con un numero, per parlarne con una tale sicurezza.
«Ascolta, se non hai niente da fare, avrei piacere di scambiare quattro parole con te per capire che idea ti sei fatta di questo seicentosessantasei».
Acconsentì titubante e, solo dopo esser usciti sulla strada, la vide più distesa e rasserenata. Pensò fosse dovuto alle ripetute assicurazioni di non considerarla una invasata mentre si scendeva le scale.
Alcuni giorni dopo tornò sul discorso, che avevano fatto, mentre si stava preparando per uscire e lei gli confidò che la richiesta di accompagnarlo, per ottenere chiarimenti sul simbolo che aveva notato, le aveva fatto sperimentare una sensazione molto strana e altrettanto intensa. La descrisse come “l’angoscia di portare il peso di una colpa non sua”.
Così, sul momento, si era chiesta cosa poteva aver combinato e perché mostrava tanto interesse alle sue idee. Quale avrebbe potuto essere la ragione per cui doveva allontanarsi da quel posto per poterne parlare?
Poi, sorridendo dei timori che l’avevano assalita, aveva aggiunto: «Ho anche pensato che non si dovesse scrivere mai quel numero».
Constatare che la sua ingenuità poteva giungere fino a quel punto lo commosse ma oltre a questa, di virtù ne doveva possedere delle altre. Cominciava a crederlo più intensamente.


Uscirono ma in quella circostanza, di ciò che gli stava a cuore, praticamente non ne fece parola. Era bello vederla, mentre toglieva i veli che oscuravano lo splendore della sua Anima. Alla domanda, relativa al perché e a causa di chi avesse cominciato a drogarsi, rispose: «Fu immediatamente dopo una furiosa lite con mia madre, ma non ho mai voluto dirglielo: se dovesse soffrire per il rimorso, non me lo perdonerei».
A Erieder venne in mente il colloquio avuto con suo padre, le sue parole al telefono la sera prima: «L’ultima volta che ci siamo visti, mi sono vergognato tre mesi per come si è comportata…».
«Mio padre, lo adoro».
Sembrò avergli letto nel pensiero e in seguito si accorse di come talvolta ne fosse veramente capace.
Passarono una giornata intera a parlare, lui a porle domande sugli argomenti più diversi, lei orgogliosa di scoprire di essere certa nelle sue risposte. Era buio quando la riportò a casa, prima di scendere, si girò e con fare amichevole volle baciarlo sulla guancia.
«Ferma! Non devi farlo, non mi devi toccare, devi stare ad almeno una spanna da me, ricordalo, se quanto abbiamo stabilito si realizza, il tuo ragazzo non deve trovare niente da obiettare, nessuno dovrà poter dire alcunché».
Il loro accordo consisteva in due clausole molto semplici: lei avrebbe usufruito della sua ospitalità in cambio dei suoi servizi domestici.
Il patto occulto, di cui pochissimi erano a conoscenza, prevedeva che lei dovesse collaborare alla stesura del capitolo di cui sarebbe stata la protagonista; mentre, era un loro segreto, la sua promessa di aiutarlo a rintracciare l’anello rubato dalla sua casa.
Si trattava di una vera matrimoniale, acquistata in Corso Italia per la somma di 666.000 lire che aveva in mente di donare alla sua compagna al momento del suo risveglio spirituale. L’anello spettava di diritto solo a colei che eternamente colma le sue pagine bianche. La donna che da sempre sa apparire nei sogni dell’uomo, colei che da sempre lo cerca e si lascia cercare. Avrebbe atteso anche se il suo sonno fosse durato mille anni.
La sua decisione era presa, a Laura, essendo dotata di una ferrea memoria, sarebbe spettato il compito di rammentargli le situazioni che necessariamente avrebbero condiviso. In particolare riferire cosa l’avesse turbata durante i dialoghi intercorsi tra loro per il tempo che si sarebbero frequentati. Le consigliò di prestare sempre la massima attenzione, probabilmente le avrebbe chiesto di ricordare ogni parola pronunciata nelle diverse circostanze e ogni sensazione da lei sperimentata. La convinse che riteneva importanti anche i minimi particolari, per poter immettere nel computer quello che, le assicurò solennemente, sarebbe stato un breve ma straordinario periodo della sua vita; aveva dunque assoluto bisogno di conoscere le sue impressioni.
Trattandosi della donna di un altro, la considerava intoccabile; essendo sposato, era parte di un altro essere e non avrebbe potuto disporre del suo corpo a proprio piacimento.
Lei avrebbe riso assieme a lui delle bassezze che di certo altri avrebbero pensato. Era una vera gioia anche poter impedire ad altri di lanciarle del fango impunemente.
In quei giorni, la materia che la ricopriva iniziava a dissolversi e cominciò a vederla: la sua anima era straordinaria ma non se ne meravigliò, poiché le scritture sono chiare dove si afferma che alcuni tra gli ultimi sarebbero stati tra i primi.
“Chi poteva esser sceso più in basso? – Si chiese ripensando alle scritture che sono il dizionario della saggezza popolare – Non hanno sbagliato fino a questo momento, non è pertanto possibile che stia ingannandomi nei suoi confronti. Lei mi crede, nonostante la metta in guardia, le consigli di non fidarsi ciecamente e sia sempre e solo lei a valutare attentamente ogni cosa che dico. Ha capito che esiste veramente ciò che sostengo da sempre: un Amore incredibilmente diverso da quello comunemente descritto.”


Quella sera stavano girando senza una meta precisa, a un tratto assecondò l’impulso di inserire una cassetta nella radio. Le note dei Litfiba la fecero trasalire; stupita, chiese guardandolo appena: «Come ti è venuto in mente di farmeli ascoltare?» «Sapevo che ti sarebbe piaciuto».
Talvolta era proprio come una bambina, una bimba a cui si porge il regalo a lungo sospirato.
Abbassò il volume per potergli parlare: «Senti, io ho capito, io credo di sapere chi sei tu, come puoi affermare certe cose non avendomi mai visto e senza conoscere chi frequento; come puoi dire con tanta sicurezza che la mia vita è cambiata radicalmente quando avevo quattordici anni…»
«Ascolta… – la interruppe per evitarle di perdersi in un mondo che ancora non le apparteneva completamente – credi di aver già capito, ma ti sbagli, a ogni modo fingiamo sia così, che tu abbia ragione, cosa vorresti? Denaro? Essere famosa?»
Non esitò un attimo: «Vorrei essere col mio Franz e vorrei avere tanti bambini… ma non sarà possibile, lo so, è una cosa che sento dentro fin da bambina.»
Il suo volto si era oscurato, tacque a lungo, poi continuò: «Oggi ho parlato con il mio medico, sono incinta».
«Sono felice.» «Mi ha consigliato di abortire, non riuscirò a tenerlo ed è meglio se lo faccio subito».

«Non devi farlo, può avere ragione lui ma il tuo dovere è quello di tentare di farlo nascere, non di ucciderlo, negandogli ogni possibilità di vedere la luce. Devi cercare la soluzione che possa rivelarsi la migliore per tutti gli esseri, in qualunque circostanza, ricordalo!».
Usare quel tono che non ammetteva repliche, la fece sentire più sola, sperduta, oppressa da una schiacciante responsabilità. Lo Spirito ne ebbe pena e volle sostenerla facendolo continuare: «Le strade paiono tante lo so, ma in realtà, Laura credimi, percorriamo tutti quella più adatta per noi, quindi non angustiarti, vedrai che agirai nel modo più giusto».
Rimasero nuovamente in silenzio.
Cercò inutilmente di carpire i suoi pensieri e poi riprese in tono pacato: «Ascoltami per favore e, se ti è possibile, rispondimi sinceramente. Tu affermi di non credere in Dio, ma solo nel Demonio, perché? Spiegamelo».
«È così, lo sento dentro di me, se ci fosse un Dio, non permetterebbe quello che vedi, tutta questa sofferenza».
«Laura…» – accostò lentamente, attese che lo guardasse negli occhi, e continuò – «non è come sembra, non si tratta di chi è responsabile ma di chi è consapevole; al di fuori di Dio non trovi nulla, l’Uno non esclude l’Altro. Dio, oltre a ciò che vedi, tocchi e speri, è anche il tre sei mia cara e può essere persino l’incubo terrificante di un bambino».
Con lei non aveva bisogno di ripetersi, ciò che diceva, le arrivava nel più profondo dell’animo al punto di risvegliare il suo Spirito. Quel lampo che appariva così spesso nel suo sguardo lo confermava.
Ora desiderava parlarle di sé, dei suoi sogni, ma si limitò a riferirle una sciocchezza, un pensiero di quando era bambino: «Lo sai che da piccolo ero innamorato del nome Laura? Ero intimamente convinto che ne avrei conosciuto una, anzi, se non fosse successo quanto mi aspettavo, sarei andato a cercarla una che si chiamasse come te, solo immaginavo una situazione completamente diversa.
Mio fratello era stato per qualche tempo fidanzato con una certa Laura, e io, pensa che strano… ricordo fin nei minimi particolari le poche volte che la vidi, addirittura la tovaglia bianca a quadri rossi, perché ritenevo straordinario, un vero privilegio, essere fidanzati con una che portasse quel nome».
L’affetto per la ragazza che aveva davanti, era indirizzato dagli anni che li separavano, verso un sentimento esclusivamente paterno; come esseri umani non poteva esserci altro ma la materia non è fine a se stessa poiché, trascorsi ventitré giorni, i loro animi eterni si tesero la mano e contemplarono di essere stati uniti da sempre.
Accadde il giorno che, valutata la situazione venutasi a creare, decise di saggiarne gli eventuali sviluppi proponendole di accompagnarlo nel luogo dove, molti anni prima, aveva vissuto un’esperienza rimastagli impressa in modo particolare e che lei ignorava completamente. Desiderava condividerne l’emozione e permetterle l’accesso all’altra dimensione.
«Senti Laura, oggi vorrei finalmente portarti in quel posto dalla splendida vista che non abbiamo fatto in tempo a raggiungere ieri; non chiedermi il perché di tanta insistenza ma ci tengo che tu lo veda: non voglio né posso dirti di più, ma lì sono certo che capirai. È fuori città ma con la moto ci saremo in un attimo. Mettiti un maglione e un giubbotto, c’è molto vento e lassù fa certamente più freddo».
Ricorda di aver dovuto insistere a lungo prima di convincerla a indossare qualcosa sopra quella leggera maglietta.
Doveva condurla lassù, era un’esigenza dell’anima, ne era sicuro, poiché suggeriva alla sua mente che quel luogo sarebbe stato di certo riconosciuto anche da lei.
Pensava di non sbagliare se voleva che lei lo vedesse, se ricordava di esserci già stata, come capitò a lui quando vi arrivò la prima volta assieme a Carmen e suo padre, di quali altri indizi poteva ancora aver bisogno?
Fu il lungo tempo trascorso dalla sola e unica volta che c’era stato o forse fu il caso a fargli sbagliare direzione quando imboccò l’incrocio.
Si trovò su una strada sconnessa e, percorrendola innervosito da quel contrattempo, notò le pietre tagliate viste nel sogno. Al termine della tortuosa salita, arrivarono sulla cima del colle su cui si ergeva la chiesetta circondata da alte mura di pietra carsica.
Scesi dalla moto, varcarono il portone con l’ampia volta di pietra, lei camminava lentamente girando attorno lo sguardo meravigliato. Diceva di conoscere inspiegabilmente tutto di quel posto ma contemporaneamente sosteneva di non esserci mai stata in precedenza.
Era lei, ora ne era certo. Il desiderio di incontrare una figura femminile che si sovrapponesse alla descrizione della Compagna dell’Anticristo, tramandata da alcuni veggenti, era stato esaudito. Troppi particolari corrispondevano e la possibilità che la sua anima si sarebbe caricata di ogni nefandezza diveniva concreta.
Adesso doveva valutare con attenzione tutti gli elementi a sua disposizione, solo così sarebbe riuscito a inserire due tessere spiritualmente identiche al loro giusto posto nel mosaico.
Il giorno che si era reso necessario, era provvidenzialmente apparsa una seconda compagna e ora intuiva che il suo compito era quello di riscattare con la vita il tradimento di chi aveva condiviso la sua fino a quel momento; anche per Laura il nemico sarebbe stato un serpente e, ambedue, dovevano esser colpite al tallone dal suo veleno. Per lei si sarebbe parlato  di avvelenamento causato da una mistura micidiale di alcool e psicofarmaci; mentre per la sua compagna, la morte dell’anima era dovuta a una esplosiva miscela di odio e d’orgoglio, innescata da chi le aveva suggerito di non seguirlo lungo la via che aveva intrapreso.
Il caso assegnava al primo il soprannome di Cobra, il secondo, non avrebbe esitato a lanciargli la sua velata sfida dichiarando di credersi l’Anticristo. Il caso lasciò a lui il compito terribile di contribuire, in modo determinante, a spezzare il legame che univa la sua famiglia. Un compito per il quale guadagnò l’inferno della follia, vissuta in una cella d’isolamento del carcere di Trieste.
Laura si avvicinò lentamente al muraglione e con un balzo si mise a sedere. Le andò vicino chiedendole di guardare le piccole valli attorno e i monti in lontananza: «Guarda, ti piace vero?…»
«Si! È bellissimo».
«È sempre stato così, e non solo questo posto, questo cielo, l’universo intero, pure noi siamo sempre gli stessi, tu e io. Ci siamo stati tanto tempo fa su questo colle, ci siamo ora e ci torneremo, verremo tra queste valli, vicino a questa chiesa, in eterno e nulla potrà impedirlo. Saremo vicini come ora, il tuo Spirito e il mio sono liberi di essere uniti per sempre e, grazie a te, altre anime potranno raggiungere quella dimensione dove la libertà diventa totale».
Sembrava ascoltare una favola meravigliosa, sul volto le si leggeva la pace, la gioia di essere lì. Poi il suo sguardo mostrò di nuovo meraviglia, tornò a stupirsi di riconoscere ciò che sapeva di non aver mai visto. La osservava con attenzione, era assolutamente sincera mostrando stupore e ripetendo che in quel posto non c’era mai stata, e ora, era come una bimba in un castello fiabesco. D’un tratto scese dal muraglione e indicò una piccola struttura fatta con delle assi di legno a protezione degli strumenti per la misurazione barometrica: «Guarda, lì dovrebbe esserci anche il tuo nome inciso, aiutami a cercarlo.»
Si avvicinò a quella specie di gabbia e vi girò attorno, ma subito si arrestò. «Eccolo!… Avevo ragione, c’è veramente ma è incompleto… che strano vero?…»
«Strano sarebbe se io e te non ci fossimo, senza di noi l’universo intero sarebbe privo di scopo».
Poi, rimasero a lungo in silenzio, solo gli sguardi, rivolti a ciò che li circondava e i sospiri, spezzavano l’unione mistica delle loro forme. “Accade sempre più spesso che i sogni di Laura si concretizzino, e quelli che le riferisco li viviamo assieme”. Stava sopraggiungendo il tramonto, tra non molto anche l’incubo tremendo.

Ciò era possibile perché aveva raggiunto quel grado di consapevolezza in cui può divenire Realtà tutto quello che si riesce a immaginare.
Ogni cosa era finalmente realizzabile sulla via straordinaria che stavano percorrendo. Era quella che conduceva al centro della dimensione costituita dalla materia-energia, soggetta a una sola legge: quella dell’amore o, se sembra troppo sdolcinata, secondo la prospettiva del Disegno Intelligente.
Lentamente tornarono verso casa, in sella alla moto si teneva più stretta del solito e la sensazione di perderla, che spesso affiorava, si attenuò.
Quella notte sognò di accarezzarle i capelli e lei quella stessa notte perse il bambino che attendeva. Il mattino seguente andò a casa sua di buon’ora, bussò alla porta e, come al solito, venne ad aprire un tipo sdentato. L’istinto suggeriva di non credere alla cordialità che si sforzava di mostrare, ma aspettare di capire la ragione occulta della sua presenza accanto a Laura.
Non attese molto, pochi giorni dopo, sibilò una velata minaccia vantandosi di essere soprannominato il Cobra e, in quella occasione, scoprirlo fu come ricevere una mazzata. Era la serpe che doveva colpirla col suo veleno.
Il tipo, davanti alla porta spalancata, sperava di convincerlo a ripassare più tardi. Soffiando dei pretesti, attraverso i pochi denti rimasti, tentò inutilmente di impedirgli di entrare. Con pochi passi si trovò accanto al suo letto.
Laura stava dormendo e il Cobra continuava a mostrarsi particolarmente agitato; con difficoltà riuscì a farlo parlare, disse che durante la notte le aveva suggerito di recarsi al Burlo a causa dei forti dolori che accusava e, da come gli fu spiegato, pensò si fosse trattato di un aborto spontaneo. Sul momento infatti, non correlò l’accaduto con le percosse ricevute da Laura pochi giorni prima; lei però non poteva scordarle, quei colpi avevano ferito soprattutto la sua anima e la sua creatura. Al pronto soccorso le fecero sette punti di sutura, poi firmò per essere dimessa senza segnalarlo al medico di turno. Nelle sue ultime ore di vita questo pensiero la ossessionava, fu proprio questa rabbia e la grande disperazione a farle gridare quelle terribili parole alla coppia del piano sottostante: «Avete ucciso il mio bambino ma voi non farete marcire il vostro, m’è stato promesso che vi verrà tolto».
E le promesse si sa, vanno mantenute. Molti mesi più tardi, quando niente e nessuno avrebbe più potuto scalfire una delle tessere più luminose del suo mosaico, alla coppia venne tolto il bambino su decisione del Tribunale.


La lasciò riposare e attese il suo risveglio; sembravano gli occhi di una cerbiatta ferita, quando li riaprì. Fece scivolare lo sguardo sopra quello squallore che li circondava e gli rivolse una muta domanda. Dal momento che aveva seguito il suo consiglio, decidendo di tenere il bambino, egli avrebbe dovuto nascere, non era possibile e nemmeno giusto che il suo desiderio venisse ignorato. Prima di richiudere gli occhi lo guardò come se l’avesse tradita.

«Laura… – disse con tutta la dolcezza di cui era capace. – in nessun punto dell’Universo può succedere qualcosa di veramente sbagliato, se è finita così, un motivo in questa dimensione c’è, semplicemente tu non lo conosci, pertanto non puoi giudicare».
Lentamente si vestì, poi, con l’auto, girarono a lungo senza parlare. Era molto tardi, quando finalmente la convinse a cenare. La portò in una piccola trattoria, si appartarono in un angolo e riprese a piangere.
«Se avessi saputo di aspettare un bambino, forse avrei potuto salvarlo, avrei detto loro di fermarsi, di farlo per quella piccola creatura che portavo in me.»
«Laura, non devi soffrire più, hai capito! Devi imparare a farlo altrimenti ne morrai, il dolore può uccidere più crudelmente della droga, ricordalo.”
«Allora lasciami bere, fammi bere finché non mi ricordi più di nulla.»
«Vuoi scordare anche me?» – chiese con un timbro di rassegnazione nella voce. –
«No!… Tu no!»
«Allora cerca di seguire i miei consigli, io non posso impedirti di ucciderti con il vino o con altro, posso solo dirti che il tuo corpo è il tempio del tuo Spirito. Potrei anche dirti che, se tu dovrai drogarti, lo farò assieme a te, solo astenendoti dal farlo darai la prova che mi ami più di te stessa.»
«Non ti farei mai del male – disse con un filo di voce – ma lasciami bere, solo oggi, ti prego.»
«Te lo ripeto, non posso impedirtelo, posso solo stare accanto a te e soffrire guardandoti.»
Alla fine del pasto, si alzò e lo seguì con passo incerto fuori dal locale. Giunti a casa sua, l’effetto dell’alcool si manifestò in tutte le sue devastanti sfumature. Stava molto male, si stese sul divano sdrucito completamente vestita e si addormentò immediatamente. Delicatamente, per non svegliarla, le tolse gli stivali, poi le prese il polso e con l’altra mano le sfiorò la fronte. No… non doveva preoccuparsi, non scottava. Le lasciò il polso, ma mentre stava per andare via, lei gli afferrò il braccio.
«Non andare via, stammi vicino.» – sussurrò – «Ti starò vicino, ora e sempre, te lo prometto, ma ora dormi, mi siederò qui accanto e non me ne andrò.»
Poi la mano si mosse da sola, stava accarezzandole i capelli, proprio come nel sogno; sfiorò con la massima delicatezza i punti dove era stata colpita, lei stava vivendo il suo Calvario e nessuno se ne rendeva conto.
Nel momento più cruciale della sua vita avrebbe dovuto superare la prova più difficile. Sarebbe stata capace di rinunciare alla felicità più totale ma non ad amare? Avrebbe scelto di tornare nel vostro stesso inferno come lui vi tornò a suo tempo uscendo dalla Gran Galleria? Per poter cogliere il reale significato degli ultimi eventi, si dovranno raccontare quelli inspiegabili accaduti alcuni giorni prima.
Quella mattina, si stavano recando al Lazzaretto, si era proposto di affittare una stanza per lei; non poteva sottrarla a quello squallore provocando la gelosia del suo Franz e la rabbia di sua moglie. D’altra parte, anche la sua sensibilità le impediva di farsi ospitare da Tarzan sapendo che le sue bambine vivevano in un alloggio adiacente.
Una sera però, la sua scarsa conoscenza dell’universo femminile gli suggerì di scuotere l’animo delle sue figlie rientrando a casa con lei; pensava che il timore di perdere il suo affetto le avrebbe spinte a cercarlo; ma non fu così, furono solo capaci di preparare la vendetta.
Al telefono le aveva descritto il panorama che si poteva godere dalla casa in cui la stava portando e lei s’era messa a fantasticare e a fare progetti. A un certo punto interruppe il suo monologo: «Laura, ascoltami attentamente, devo farti una domanda molto importante, e tu dovrai rispondermi con sincerità.»
Lei lo guardò con curiosità, il tono grave che aveva assunto doveva averla colpita ma qualcosa lo trattenne. Forse fu il mare che rispecchiava la tinta plumbea del cielo: «No!… Penso non sia il momento di chiedertelo! Non è l’ora giusta, non ci sono i colori adatti, quelli che preferisco e non è nemmeno il punto indicato per queste cose, te lo chiederò questa sera.»
Riprese tranquilla il suo monologo, cominciava a non stupirsi del suo modo di fare, come una foglia portata dal fiume verso il mare, così lei si lasciava condurre dal tempo senza inizio né fine verso un punto senza confini. Giunti sul luogo, si lasciarono prendere in giro da un tipo che, lo si intuiva facilmente, non aveva nessuna intenzione di affittarle la stanza.
Ritornarono dunque verso città ma, invece del solito percorso, deviò verso il Santuario di Muggia, dove, dal belvedere che c’è accanto, si ammira Trieste col mare ai suoi piedi e una corona di montagne alle spalle. Si stavano avvicinando e lei chiese di fermare accanto alla chiesa; così arrestò la macchina nella piazzola adiacente. Camminavano lentamente e in silenzio; a un tratto lei parlò in modo da fargli rivivere una antica emozione: «Se dico una cosa ti ritorna il buonumore, ne sono certa.» «Dilla, ne ho bisogno, quel tipo stava mandando in bestia anche me.»
«Mi pare di essere venuta qui per perdere la verginità, è la cosa più strampalata che potesse capitarmi di pensare vero?»
Si mise a ridere a squarciagola senza accorgersi che la guardava con gli occhi sbarrati.
Nella Dimensione dove tutto può accadere, tutto poteva affascinare e stupire, anche la capacità di percepire i ricordi che altri avevano vissuto ed erano stati sepolti dagli eventi.
Quando si riprese dallo stupore, le propose di prendere un caffè; era riuscita a fargli riavere il buonumore in un modo semplicemente meraviglioso.
Solo una persona poteva conoscere il significato di quelle parole, pronunciate in quel luogo e capire la ragione della sua meraviglia: la sposa che aveva avuto accanto, lei, in quel punto preciso, gli si era donata la prima volta.
A mezzogiorno pranzarono in Val Rosandra e rimasero a parlare tutto il pomeriggio. Verso le sei tornò in città per condurla in Questura; essendo sottoposta a misura di prevenzione, doveva firmare un registro ogni giorno. Evaso quell’obbligo le propose di andare a San Giacomo per un aperitivo; si costringeva a pensare che tenendola impegnata nelle occupazioni più comuni, forse poteva rinviare il giorno in cui avrebbe preso una decisione assolutamente fuori dal comune.
Giunti di fianco alla farmacia arrestò la vettura, lei istintivamente girò appena la testa nella direzione della chiesa per vedere se la via fosse libera. A quel punto, portò improvvisamente le mani al seno e con uno scatto si chinò in avanti.
Notò il suo rapido movimento e vide che subito dopo si adagiava lentamente sullo schienale. Poi, con voce diversa dal solito, spiegò: «Ho sentito una gioia immensa, qui, nel più profondo del cuore – disse senza celare lo stupore – ed è stato meraviglioso, era bellissimo, solo è durato troppo poco».
Non aveva bisogno delle sue parole per capire, il suo volto emanava ancora la beatitudine che aveva provato.
«Laura, ora ho voluto che tu vedessi il nirvana o se vuoi, il samadhi, ma forse preferisci credere si sia trattato di una fugace visione del luogo che chiamano paradiso; si tratta comunque della stessa misteriosa dimensione cercata da tutti i mistici.
Questa mattina, mentre si andava al Lazzaretto, intendevo farti una domanda, ricordi? Ma poi dissi che non era il posto adatto né il momento e neppure i colori, di ciò che ci stava attorno, erano i più indicati; bene, volevo chiederti proprio questo, se, e quando, hai sentito una gioia di tale intensità, questa sensazione così particolare, che una volta sperimentata non la si scorda mai più; devo sentirlo espressamente da te».
Sul momento non rispose alla domanda, lei, la ragazza considerata perduta da coloro che avevano modo di avvicinarla, pensò immediatamente agli altri: «Perché non lo fai vedere e sentire a tutti?»
Il suo fu quasi un urlo implorante ed era davvero commovente l’impeto con cui lo chiese.
«Non sarebbe giusto, sono ancora pochi quelli come te».
Accettò la sua spiegazione con naturalezza, senza mostrarsi minimamente inorgoglita dal giudizio così lusinghiero. Era come una bambina, nessun Dio avrebbe saputo trovare un motivo migliore per amarla.
«Laura, – riprese dopo qualche istante – dimmelo sinceramente, perché ho bisogno di sentirlo da te».
Avrebbe voluto aggiungere che la gioia di Dio era il suo amore per gli altri, ma attese la sua risposta.
«Questa felicità, questa beatitudine infinita, questa cosa che non riesco nemmeno a descrivere, la provo per pochi istanti quando vedo il mio Franz, anche quando incontro dei bambini molto piccoli per la strada o come quella volta che sono salita sull’autobus e ho visto quella stellina tra le braccia di sua madre. Io mi fermo e mi avvicino, ma poi temo sempre di venir cacciata. Una come me, figurati, con tutti questi tatuaggi, è normale.»
Lo disse quasi col tono di sfidare chi non sa abbandonare i propri pregiudizi.
«Già!» – annuì lui rabbuiandosi – «purtroppo per molti fermarsi alla sola apparenza è una consuetudine; non prendertela a ogni modo, so che ti riesce difficile, ma cerca di essere meno impulsiva; hai visto che spesso evito di chiamarti per nome? Laura significa anche impetuosa e preferisco non ricordartelo nemmeno a livello subliminale».
A tarda sera la riaccompagnò a casa. Scendendo dalla vettura, provocò ironica: «Sono stata brava vero? Non ti ho sfiorato nemmeno una volta oggi.»
«Te ne sono grato, continua sempre così! Ciao!» «Ciao!… Senti… aspetta!… Accompagnami per favore, ho paura del biondo».
«D’accordo vieni, stammi vicino e non temere, se alza le mani gli spezzo il braccio; non potendo più continuare a farci dei buchi forse trova il tempo per procurarsi da vivere senza ricorrere all’ignobile commercio di veleno per l’anima».
Nonostante cercasse di infonderle sicurezza con quelle battute, mentre salivano le scale, la paura era tale da sembrare simulata ma lui, la sua paura la sentiva, era reale anche se fondata su astratte ipotesi.
La mattina seguente passò a prenderla, aveva più volte diffidato gli occupanti dello stabile dal farle violenza ma non era il caso di fidarsi delle loro assicurazioni concilianti, era meglio fare assieme anche quei pochi gradini, doveva evitare che con qualche pretesto l’aggredissero.
Giunti ai piedi della scala, un uomo alto, biondo, dai capelli lunghi e con lo sguardo torvo entrò. Era l’inquilino del primo piano, quello che Laura temeva di più; mentre lei si stringeva al suo fianco badò a non perderlo di vista.
Lui passò accanto senza compiere il minimo gesto, eppure, varcata la soglia del portone, la ragazza dopo pochi passi improvvisamente si arrestò, socchiuse gli occhi sollevando di scatto le mani a protezione del volto e, in quel preciso momento, il fragore alle sue spalle del portone sbattuto con forza, le fece piegare le ginocchia.
Oscillò e parve afflosciarsi per cui scattò in avanti per impedirle di cadere e fortunatamente ci riuscì. La teneva tra le braccia per sostenerla e poteva vedere tutto il suo terrore e percepire il suo tremito convulso.
«È stato tremendo vero?…».
«Sì! Ho sentito una paura immensa, non poteva essere più terrificante, non ho mai provato un’esperienza così spaventosa in tutta la mia vita, credimi.»
«Calmati, riesci a camminare?».
«Sì! Ora va meglio».
Salirono in macchina e lei, accasciandosi sul sedile, emise un profondo respiro.
«Andiamo via ora, poi ti spiegherò il significato del terrore che hai provato.”
Solo quando furono lontani e lei si mostrò più tranquilla riprese a parlare: «Laura, guardami e ascoltami attentamente.»
«Mi vuoi spiegare perché ho provato tanto spavento vero?»
«Sì! E devo dirti che non è del biondo in realtà che hai avuto paura, ma di ciò che lui e questa casa rappresentano. L’altro giorno hai conosciuto la beatitudine, ora hai provato l’orrore dell’Inferno. Dovevi averne conoscenza per poter scegliere nel momento Supremo.»
Era indeciso se continuare o meno, sapeva che le parole in certi casi erano superflue. Sapeva pure che i giorni trascorsi dalla ragazza assieme a lui, avrebbero dovuto rappresentare la somma degli anni da lei vissuti; era questo il messaggio che la sua mente si rifiutava di darle? L’aveva confidato a chi li conosceva entrambi, ma parlarne con lei era altra cosa, il suo dolore poteva influire sulla sua imminente decisione.
Laura era finalmente consapevole dell’esistenza di un Disegno e intuiva di farne parte. Conosceva il suo ruolo in quel sogno che sarebbe finito e sapeva pure che quel sogno l’avevano già fatto assieme.
Per capire il suo stato d’animo, basta immaginare per qualche istante di essere, come loro, le figure di un disegno che si ripropone immutabile da tutta l’eternità. Guardando oltre questa realtà, si può scorgere l’ortica mentre si trasforma in giglio, ed è pure possibile vedere degli esseri umani capaci d’amare come degli Dei.
Laura non lo lasciò smarrire a lungo in quei pensieri: «Lo sai anche tu, non è vero?» Sussurrò interrompendo le sue riflessioni. «Sì! Lo sai…» fece una lunga pausa. «ho sempre sentito nel mio intimo che sarei morta giovane; fin da bambina avevo questo presentimento».
«Non parlare così, non voglio nemmeno pensarci, soprattutto non devo, io non ricevo solo le unghiate dalla sofferenza come tanti, vengo divorato dalla disperazione e, se mi ferisci, sanguino più di tutti. Figurati che quando ero poco più d’un bambino, una ragazzina di nome Barbara, con poche affilate parole, tagliò il filo della speranza di rimanerle accanto al quale ero appeso.
Per lo stress che ne derivò rischiai di rimanere paralizzato; ricordo che mentre camminavo per la strada, se cercavo di accelerare il passo, la gamba sinistra e il braccio destro si torcevano in modo innaturale mentre la muscolatura del collo, non esercitava più la sua funzione e la testa ricadeva di lato. Rimanevo così per alcuni interminabili minuti, timoroso che qualche passante vedesse il mio stato… quella era una debolezza che non potevo confessare ad altri.»
Continuarono a raccontarsi tutto, a lei dava l’illusione di espandere il tempo che le era stato riservato.

Nel frattempo giunsero a Barcola, quando sulla destra notarono una terrazza con dei tavoli rallentò…
«Ci fermiamo qui?» «Come vuoi».
Si sistemarono a un tavolo sotto una pianta rampicante secolare fortemente suggestiva, attorno a loro, dei passeri saltellavano senza timore. «Ti piacciono gli uccellini?» Trillò fissandomi negli occhi e mettendosi a ridere, ma senza vera malizia. Rise assieme a lei, risero degli altri, di chiunque potesse pensare ciò che loro avevano trasceso. Non c’era nessuno, il cameriere si avvicinò in fretta e prese l’ordinazione.
Laura ad un tratto batté la mano sul tavolo. «Mi sono ricordata cosa volevo chiederti stamattina… vorrei acquistare la cassetta di -Cristiana F. e i ragazzi dello zoo di Berlino-. Ci tengo molto, vorrei vederla assieme a te.» Desiderava provargli che quanto diceva corrispondeva a verità, voleva che credesse in lei e tenesse in considerazione le sue impressioni e i suoi suggerimenti. Raccontò che alcuni anni prima un certo Mario, un uomo privo della vista ma, a quanto pare, capace di vedere molto meglio di altri, le fece una predizione inquietante. Riferendosi appunto a -Cristiana F.- l’uomo disse che le sarebbero capitate le stesse cose dell’interprete di quel film; tra queste, anche lei avrebbe nascosto la droga in una spazzola nel bagno e verso la fine della strada che era destinata a prendere, due soli uomini sarebbero riusciti a trarla fuori da quel girone infernale.
Il primo avrebbe potuto farlo solo parzialmente, ma, dopo di lui, vedeva l’incontro con un personaggio che sarebbe riuscito a strapparla al suo inferno per sempre.
Laura garantì che quando parlò con Mario e anche per il periodo successivo, la trasgressione si limitava a qualche comune sigaretta. Assicurò che a quel tempo la droga la vedeva come il classico fumo negli occhi e dunque, quella predizione la lasciò totalmente indifferente.
Qualche anno dopo, le capitò di vedere per la prima volta proprio quel film. Constatò con sgomento che le previsioni di quel cieco si erano rivelate incredibilmente esatte, oltre a vederla usare una spazzola del bagno per occultare la droga, conosceva le situazioni che il film presentava e non aveva sbagliato dicendo che sarebbero state identiche a quelle da lei vissute.
La ragazza aprì una parentesi dicendo che si trattava di una profezia che stava lentamente avverandosi e di essersi chiesta spesso se veramente sarebbe arrivato chi le avesse teso la mano.
«In seguito, stavo bruciandomi, avevo a malapena quarantacinque chili, poi ho conosciuto chi mi ha salvato quella prima volta.»
Si riferiva proprio al suo amato Franz.
Avevano del tempo a disposizione e prima che aprissero i negozi poteva parlarle di se.
«Laura, tu mi vedi in certi momenti come sono in realtà ma sono pure un uomo come tutti gli altri, se ferisci la mia forma ne esce il sangue, se mi spezzi le ossa ne soffro al pari di chiunque, ed è proprio questo a farmi sentire come un antico cavaliere, ma, come ogni guerriero devo tornare di tanto in tanto dal campo di battaglia, altrimenti potrei morirvi senza bisogno di essere colpito. Lì è terribile, vedi cadere i più valorosi, quelli che si sacrificano affinché altri possano vincere; talvolta, dopo morti, vengono tagliate loro le mani, come al Che, un eroe di cui forse non hai mai sentito raccontare le gesta,» aggiunse piangendo. «ci sono le urla di milioni di bimbi e quelle di tante madri. Il mio compito, quello che amo credere sia il mio compito, tu lo hai capito e sei la prima a intuire cosa si cela dietro la nobiltà di agire in loro soccorso.
Hai capito che per assistere a tutta quella sofferenza non è necessario compiere viaggi di migliaia di chilometri, basta scrutare con gli occhi dello Spirito.
Tu sei il riposo del guerriero e sei quella che porterò nella mente quando tornerò a combattere. La pace che sento, il sogno che vivo assieme a te, se anche fosse un’illusione, è sufficiente a ridarmi la forza di fare il mio dovere di uomo. Sono disposto a qualunque sacrificio sai, io da tanto… da troppo tempo… ho rinunciato alla gioia dell’amore. Ti basta? Devo… posso solo combattere! Forse sarà un tentativo che mi annienterà, ma amo lottare per ridare alla terra l’aspetto dell’Eden che avete scordato».
Poi, il tono della sua voce si abbassò: «Ho rinunciato per sempre a quella felicità ma non ad amare, e ho scelto di pagare quello che per tutti è il prezzo più alto. Chi è capace d’amare veramente, sente una beatitudine dentro di sé come quella gioia indescrivibile che tu hai conosciuto, ma chi rinuncia alla gioia dell’amore, e credimi, sono molto rari, rinuncia a un’estasi sublime. Si può capire cosa intendo se pensi al gesto di bere/amare senza dissetarsi/gioire.
Il giorno che mi trovai davanti alla Porta, dentro quella galleria, vidi i volti e udii le urla di tutti coloro che soffrono, vidi la sofferenza in chi corre, in chi vola e in ciò che striscia. Riuscii a sentire il rumore degli alberi morti per le piogge acide mentre cadevano al suolo. Non mi fu risparmiata nemmeno la vista del mare che assumeva il colore d’una ferita purulenta. Allora decisi che non potevo gioire finché una sola lacrima sarebbe scesa sul volto di un essere umano, anche una sola ala si sarebbe spezzata e un solo fiore appassito prima del tempo; come premio mi fu affidato un compito che conduce alla morte, ma per amore dell’anima di tutto ciò che esiste, accettai senza condizioni. In quel giorno mi fu concesso di uscire dalla “Gran Galleria con un’unica arma: la sapienza.
Ero pronto a perseguire gli obiettivi attribuiti al tuo misterioso 666 e, per riuscirci, dovevo interpretarne il ruolo. Da quel momento l’unica vera compagna fu la solitudine. Trascorsero molti anni da allora, riuscii, spesso con grande sforzo, a evitare che la mia forma venisse stritolata dagli eventi e dal peso di quella tremenda responsabilità.
Poi… arrivò il giorno in cui l’immagine che davo di me, quella di un uomo sconfitto, rimase completamente sola. La mia famiglia s’era dissolta, non avevo più niente e nessuno, tutti mi avevano tradito e abbandonato. Stavo camminando con la morte nel cuore e sentivo che le forze stavano lasciandomi inesorabilmente.
Quella sera, il mio passo s’era fatto incerto, stavo per cadere. Sapevo che non mi sarei più rialzato e per un istante pensai di gridare, avrei voluto che le vibrazioni del mio urlo si trasformassero in un bagliore luminoso, così che qualcuno vedendomi avesse pena e io potessi sentirmi meno solo; ma a che scopo chiamare aiuto se non ero altro che uno strumento spezzato, inutile. Fu allora, che mi rivolsi nuovamente a mio Padre chiedendogli di mandarmi qualcosa che mi fosse d’aiuto, di avere pietà di suo figlio.
Deviò il fiume di parole con uno sguardo verso di lei. Laura stava fissandolo negli occhi, aveva infine tolto il velo che le celava la forma dello Spirito: se avesse voluto, avrebbe finalmente potuto vedere. Attese che le sue sensazioni si fondessero con le sue, poi continuò: “Il giorno dopo, per caso, sei arrivata tu. Senza che nemmeno te lo chiedessi mi hai ridato la volontà e la forza di continuare nella mia opera, mi hai riportato dolcemente sul mio eterno sentiero. Solo tu potevi farlo».
C’era solo lei, su quel terrazzo, le sue lacrime solo da lei potevano esser viste e comprese.
Era rimasta in silenzio, guardandolo con meraviglia, era la prima a entrare nel suo mondo. Ora il suo volto stava esprimendo tutte le emozioni, solo a una dea sarebbe stato possibile. «Ti amo… ti amo… ti amo… ed è un amore diverso.»
«Lo so, sei simile a Giovanna d’Arco e ai leggendari monaci guerrieri, rispose dopo aver scosso la testa per allontanare un buio presentimento «la tua anima è vergine e il tuo amore è casto e puro.»
Tornarono in città e, a suggello di quelle parole, scesero per via Ginnastica perché aveva deciso di donarle una collana di perle e un bracciale.

Uscendo, sembrò che a parlare con quel tono, volutamente ambiguo, fosse la sorridente immagine riflessa dalla vetrina: «Cosa dovrò fare per questo?»
Era la sua natura femminile che desiderava metterlo alla prova, poiché non le era affatto chiaro il motivo per cui si asteneva anche dallo sfiorarla.

«Nulla, lo sai pure tu, dovrai solamente essere sempre così, non ti chiedo altro».

Era felice, quando uscì da quel minuscolo negozio, lo si capiva anche dalle sue parole.
«Lo credi? Se mi ritornassero il cofanetto che possedevo, con tutto l’oro, quasi due chili e mezzo, per queste perle, non accetterei. Per me sono di un valore immenso».
«Anche per me lo sono, rappresentano la purezza della tua anima e non solo».
Restò in silenzio per qualche istante poi riprese: «Devi sapere che a mia moglie feci un regalo che rappresentava il suggello di un patto simile al nostro. Circa quattro mesi prima del suo compleanno, promisi che per la sua festa avrei abbattuto il muro che divideva un popolo. Era un atto simbolico pure quello ma lei il nove novembre non lo comprese e, a causa del suo orgoglio, non lo intuì nemmeno in seguito».
Puntualmente, la predizione si realizzò: il giorno che compì gli anni cadde il Muro di Berlino. In seguito però, un muro ben più invalicabile venne eretto tra loro. Questo però poteva abbatterlo solo lei con la fiducia rinata in lui. Andandosene mentre scendeva il buio della ragione, aveva lasciato cadere nel suo cuore ormai arido, un seme, se lei lo avesse innaffiato con le lacrime del pentimento, quel seme poteva germogliare e, divenuto imponente, far crollare quel muro di indifferenza e di odio che lei stessa aveva eretto e consolidato.
Più di dieci anni passarono, prima che alcune sue parole potessero far pensare che quel seme fosse stato innaffiato. Quelle parole ora sono poste alla fine del libro.
Finito il suo racconto, continuò a camminare in silenzio a fianco della ragazza. Tornando verso il centro per via Ginnastica, posò più volte lo sguardo su quel collo scultoreo, le perle lo rendevano ancor più simile a un capolavoro artistico.


Alcuni mesi dopo, ripercorrendo la stessa strada, gli tornarono alla mente le perle di Laura e, rientrato a casa, si mise al computer. Rabbiosamente digitò sulla tastiera un “consiglio” a chi si era permesso di sottrarle: – Conservale con cura ogni perla conta i ventitré giorni che lei trascorse con me e la somma di tutte quelle romantiche perle rappresenta il tempo che hai per pentirti di averle rubate. –
Quella notte, la donna che accettò il ruolo della Meretrice e di bere nel calice da cui solo i più grandi mistici avevano saputo attingere, rimase a dormire nella sua casa.
Il mattino seguente era ancora buio quando scese in soggiorno e si avvicinò al letto di fortuna predisposto vicino al tavolo del computer; anche vestita dei soliti abiti, era simile a uno di quegli angeli che si possono vedere nei dipinti di tanti musei, e saperla così vulnerabile, lo rattristò.
La accarezzò dolcemente perché temeva di svegliarla, quella sarebbe stata una brutta giornata, lo sentiva e mentre lottava con la mente per ricondurla sui passi imperturbabili dello Spirito, lei aprì gli occhi. Sorrise leggermente, li richiuse felice e sussurrò con un soffio: «Hai delle mani meravigliose.»
Poi mosse lentamente la testa di lato e lo baciò sulla mano. La ritirò di scatto ma, timoroso di ferirla, guardandola negli occhi, posò le labbra dove le aveva posate lei.
«Ora… sei veramente bella… bella come una statua.» Mormorò senza lasciar trapelare la tristezza. Sorrise e continuò a sorridere, anche quando le disse che quel bacio sarebbe stato il primo e l’ultimo. Più tardi, verso le dieci la riaccompagnò a casa e sulle scale si incontrarono proprio col suo Franz. Sembrava impazzito, lasciò passare la sua donna che lo fissava con gli occhi sbarrati, quindi urlò: «Togliti il casco, fa vedere chi sei, toglitelo, voglio vederti in faccia, bastardo!».
Laura cercò di trattenerlo ma lui la spinse violentemente e lei gridò disperata: «Calmati, lasciami parlare, non sai chi è lui, ti prego non fare così, fermati!»
Sembrava che Franz non la sentisse nemmeno, le intimò un’ultima volta di allontanarsi e lei rimase come impietrita. Notò preoccupato che continuava a tenere il braccio in un modo innaturale dietro la schiena; pareva proprio che impugnasse una pistola.
«Stai calmo!» urlò a sua volta, conscio che col tono della voce doveva esprimere la massima sincerità «Non hai alcun motivo per fare così, non abbiamo nulla da rimproverarci».
Quel massiccio individuo non dava ascolto, ripeteva furibondo di volerlo vedere negli occhi. Rammentò che Laura gli aveva confidato la partecipazione di Franz ad alcune cruente sparatorie e questo gli fece pensare che l’uomo stesse per scaricargli un caricatore in faccia. L’attimo successivo gli tornò alla mente che lei aveva sognato il suo Franz mentre lo condannavano a quindici anni di carcere.
La sfortuna più nera pareva volerlo perseguitare ma se così era scritto, non aveva al momento alcuna possibilità di impedirgli d’ucciderlo.
Vista la distanza che c’era tra loro, un suo gesto per ridurla sarebbe stato interpretato come un’ammissione di colpa e avrebbe determinato l’irreparabile.
A ogni modo era suo dovere non arrendersi a niente e nessuno per alcuna ragione. Doveva riuscire a farlo scendere in strada e il tempo era suo alleato: più ne passava, più aumentava la possibilità che si rendesse conto della gravità di quello che stava per fare.
Spararmi in mezzo alla via, significava perderla per davvero e confidava che questo l’avrebbe capito. Cominciò così a indietreggiare, invitandolo a seguirlo. Lentamente, assieme al suo alleato, il Cobra, che si teneva prudentemente alle sue spalle per consigliarlo, lo attirò dove voleva: lontano da lei. Pensava fosse il timore che potesse farle del male a impedirgli di fare appello a tutte le sue risorse, poiché non riusciva a calmare il suo animo.
Non importa come lo fermò appena si giunse in strada; risultò non essere armato della pistola quando finì spalle a terra ma mentre si rialzava levò rapido il casco e lui inaspettatamente mostrò di conoscerlo.
«Cazzo! Tarzan! Sei tu!… Perché non lo hai detto subito?».
Lo guardò a sua volta con estrema attenzione e a quel punto gli sembrò di riconoscere il giovane con cui aveva condiviso la cella nel giugno dell’ottantasei.
«Perché non ti ho riconosciuto, sei grosso quasi il doppio da quando  ci siamo visti l’ultima volta, ti ricordavo poco più che un ragazzo».
Sarà stato per superare l’umiliazione o, piuttosto come ammissione di essersi sbagliato, che adottò l’unico atteggiamento possibile in quella circostanza: lo abbracciò calorosamente. A quel punto la tensione pareva essersi placata e questo facilitò la messa a fuoco della figura che aveva davanti.
Si!… Si trattava di una persona conosciuta in carcere molti anni prima. A quel tempo era un ragazzo che mostrava molto interesse ai suoi incredibili racconti. Le parole che allora gli aveva rivolto e che erano mirate a plasmarlo in un certo modo, erano dunque servite allo scopo senza ulteriori interventi.
Per caso, l’esperimento limitato a un singolo individuo, era riuscito pienamente e ora ne aveva conferma; se l’uomo era divenuto inconsapevolmente la tessera di un mosaico, il caso poteva anche creare i tasselli mancanti, quelle particolari figure capaci di fornire le sfumature necessarie alla realizzazione del Disegno.
Rimase a parlare con loro fino a mezzogiorno, il tempo per offrire una pizza, poi se ne andò lasciandoli soli.
“È triste sapere che il suo Franz non saprà né potrà darle ciò che lei desidera.” Quel pensiero improvviso lo rattristò. Tornò a casa e buttò giù svogliatamente qualche riga di appunti, poi sentì l’impulso di recarsi in Questura. Doveva parlare con una vice ispettrice che la conosceva e sembrava averla in simpatia.

«Questa sera Laura non verrà a firmare entro l’orario stabilito dal giudice, non mi chieda perché, non lo so nemmeno io, però so che quella creatura sta male, tutti si prendono gioco di lei e lei reagisce distruggendosi con le sue mani non riuscendo a sopportarlo.»
Mentre le confidava i suoi timori, un suo collega, notando la preoccupazione che esprimeva, si intromise per informarsi: «La ragazza è stata forse ricoverata? Se è stata condotta in ospedale non deve affatto preoccuparsi, verrà giustificata, stia tranquillo.»
«Senta, cerchi di capire, non intendo dire che Laura potrà dimostrare di non essere venuta a firmare perché stava male o per qualche altra ragione, sono venuto ad avvertirvi che per un motivo che nemmeno io conosco lei stasera non verrà!»
L’agente lo guardò sbigottito ma alla fine la professionalità ebbe la meglio sul suo stupore, lo congedò assicurando spicciativo che, nel caso di un suo effettivo ritardo, si sarebbe interessato per evitarle dei provvedimenti.
Puntualmente Laura tenne fede alla sua fama di ciclone in gonnella. Dovettero condurla a forza in Questura per firmare proprio degli agenti e con due ore di ritardo. Assieme al Franz aveva litigato ferocemente con un tipo per delle frasi oscene che le erano state rivolte ma, che secondo l’anziano corteggiatore che le aveva pronunciate, avrebbero dovuto esser accettate per dei complimenti.
Quella sera, raggiunto dalla sua chiamata, tornò alla Centrale e la fece salire in macchina senza nemmeno rivolgerle la parola. La accompagnò in un bar del Viale e lì provò a rompere il ghiaccio parlando tristemente dei pochi attimi felici strappati con fatica a quella burrascosa giornata; erano quelli trascorsi con lui nella loro squallida camera. Anche quei momenti, precisò, alla fine erano stati caratterizzati da un fatto di cui non riusciva a farsene una ragione e che l’aveva scossa profondamente.
Raccontò che dopo il rientro a casa, aveva del tutto scordato l’episodio dell’anziano ammiratore e, nelle poche ore di licenza dal carcere rimaste a Franz, intendeva assolutamente riavere la sua fiducia.
«Un attimo prima dell’irruzione della polizia, a causa di quella maledetta lite, ero stesa sul letto ad aspettarlo, lui stava levandosi la camicia e si girò a guardarmi. Rimase immobile solo pochi istanti, ma sembrarono non finire mai, poi… dalla sua bocca uscirono inaspettate le tue parole: “Sei bella come una statua”. In tutta la mia vita, nessuno aveva saputo parlarmi come te, non avevo mai ricevuto quel complimento, credimi… aspetta… lasciami finire… la sua voce… era la tua.»
Cercava d’inserirsi nel suo sfogo ma quel evidente turbamento lo impediva, e allora si limitò a concludere: «Non stupirti, dimentichi quanto ti promisi?… Se anche non mi vedrai, io ci sarò, il mio Spirito è legato a te da sempre. Il mio Spirito può assumere la Forma di tutto ciò che tu ami… e non solo.»
La riportò in via Flavia prima che calasse il buio, non era in grado di affrontare altre situazioni stressanti.
Giovedì, come al solito, si recò da lei, era ancora agitata per quanto accaduto il giorno prima. Ora la sua mente era combattuta tra il seguire il volere del suo Franz o raggiungerlo.
Come donna sentiva l’obbligo di rimanergli accanto, di attenderlo a quel terzo piano; lì dove lui la voleva e a ricordarglielo ci pensava costantemente il Cobra. Laura sentiva di non essere più la donna di prima, una donna con le aspirazioni e le mete di tante altre. In quel caso non avrebbe raggiunto la consapevolezza di dover compiere assieme a lui un’opera immane. A lei però i due ruoli parevano talvolta incompatibili. Il serpente le inoculava la colpa, per causa sua si credeva tenuta a una scelta, mentre ai suoi occhi era assurdo solo pensarlo e questo bastava per scatenare nel suo animo un doloroso conflitto.
Si immagini la condizione psicologica di una sposa, alla quale, giunta davanti l’altare, si faccia credere che dovrà scegliere tra il suo amato e colui che da sopra una croce, può solo gioire della sua felicità. Una simile alternativa offerta sotto gli occhi dei parenti, dei testimoni e di tutti gli invitati.
Laura guardava attraverso un cristallo d’inusitata purezza un fiore meraviglioso e continuamente le veniva suggerito che lui cercava di trafugarlo. Si voleva farle credere che ambiva quella meraviglia, a lungo accudita, rappresentata dal suo amore per Franz. Aveva capito che questo le lacerava l’anima e, nel pomeriggio, quando l’agitazione che a lungo l’aveva pervasa fu scemata, lo riconobbe pure lei. Stavano seduti in un bar del viale e il juke box inviava le sue note, rendendo quasi superflue le loro parole. Il caso faceva apparire quei temi musicali come messaggi che potevano scambiarsi.
«Lo senti? Lo sai cosa fece il leader di quel gruppo quando la moglie lo lasciò? Si sparò!».
«Laura, io so che Franz non lo farebbe, ma so anche che non posso né voglio obbligarti a correre questo rischio, è anche giusto che non ti influenzi nemmeno: se cercassi di farlo sarei come tutti, penserei a eliminare la disperazione che mi avvolge a causa della solitudine, ma ti ripeto che non posso né devo distrarmi, le mie forze le riservo per combattere sotto il vessillo di mio Padre. Tu, credimi, sei capace di scegliere non solo tra bene e male, ma anche di dirigerti verso ciò che li trascende, sei profondamente innamorata dell’amore e, come tutti, aneli a qualcosa che erroneamente si vorrebbe possedere, ricordalo, ti verrà utile un giorno non lontano.»
Ascoltarono in silenzio l’ultima canzone. Celentano riusciva come al solito a tradurre in musica ogni suo pensiero, solo alle anime come la sua ciò era possibile.
«Laura, ora possiamo tornare, mi sembra che tu sia riuscita a calmarti perfettamente. Vedi…» continuò in tono scherzoso «la terapia a base di affetto ti è molto utile e, se associata a della buona musica, può fare miracoli».
Sorrise: «No! Non è la musica né l’affetto a fare i miracoli e tu lo sai… è l’amore».
Alla fine, le sue parole erano divenute un sospiro. Più tardi, mentre correvano verso la sua casa, sembrava che temesse di venir strappata via dal vento, eppure col custom procedeva lentamente; non si era mai stretta tanto forte a lui, di certo sentiva anche lei che il distacco delle loro forme era prossimo.
«Laura, ascolta, devo parlarti».
Lei avvicinò il capo e lui intrecciò la sua mano sinistra alla sua, stringendogliela. Lei la racchiuse con entrambe.
«Dimmi, ti ascolto anche se non ti guardo».
«Laura, ora tu stai giungendo dinanzi alla Porta, spetta a te decidere se dopo averla aperta vorrai entrare o invece richiuderla, per tornare nella dimensione che contiene un aspetto dell’inferno. Hai potuto vedere ciò a cui pochissimi rinunciano per amore degli altri. Tu, se vorrai, davanti alla Soglia potrai fare altrettanto, ma ricorda che nello stesso istante sarai libera da ogni dovere. La tua scelta non dovrà dipendere da obblighi verso qualcosa né verso qualcuno».
Strinse più forte la mano. Si sentii fondere in lei e lei in lui.
«Laura… ti innalzerò sopra tutte, te lo prometto e la mia, lo sai, è una promessa che si rinnova eternamente. Sarai come una cometa che, al suo ciclico passaggio, rischiara la notte permettendo a chiunque volga lo sguardo verso il cielo di ritrovare la strada».
Non rispose, ma seguitò a stringerlo in silenzio.


Venerdì! Come vorrebbe non averlo mai vissuto quel venerdì. Al mattino pareva una belva cui avessero strappato i cuccioli, la sera una martire dopo la tortura più orribile; quando arrivò verso le undici, stava ancora dormendo e il Cobra, dopo che ebbe a lungo bussato, si presentò alla porta e gli intimò di tornare a mezzogiorno.
«Non è possibile, – rispose spazientito. – dobbiamo andarcene di qui al più presto, altrimenti facciamo tardi in via Puccini, alle dodici chiudono».
Cercò di mostrarsi determinato ma lui alzò la voce innervosito per ribattere e lei, a quel punto, aprì lentamente gli occhi.
«Dammi una sigaretta ti prego».
«Mi dispiace non ne ho».
«Ah! Senti… fammi un favore… Cobra, ecco il denaro per andare a prenderle, ci vai?».
Non poteva assolutamente lasciarsi sfuggire la sua preda e rispose di no in malo modo affinché non proseguisse nella sua richiesta.
«Farò un caffè, lo berrai vero?» – riprese l’istante successivo con tono suadente, cercava evidentemente di stringere le sue spire e ci riuscì. – Quando finalmente cominciarono a scendere era troppo tardi, lo Stato era in agguato; attorno allo stabile, diverse macchine della Polizia erano in attesa.
Appena giunti in strada un gruppo di individui, alcuni dei quali in divisa, li bloccò. Sbrigativi li invitarono a seguirli. Tornarono al terzo piano assieme agli agenti, i quali, dopo averle posto qualche domanda di rito, misero a soqquadro tutto il locale.  Della droga, come aveva sostenuto con forza, al momento non poteva esserci nemmeno l’ombra. In poco tempo terminarono la perquisizione e uscirono sul pianerottolo; alcuni di loro vi sostarono, mentre altri sgusciarono nei due appartamenti attigui che erano disabitati e avevano le porte divelte. Lei era rimasta in mezzo alla stanza, guardando le sue misere cose sparse sul pavimento, pareva rassegnata a dover subire senza tregua ogni sorta di violenza. Poi, con l’irruenza che la caratterizzava, improvvisamente rialzò la testa e, mentre gli occhi le si accendevano d’una luce sdegnata, urlò tutta la sua rabbia:
«Bastaaa! Me ne vado e qui dentro non ci vengo più, non posso continuare a vivere così. Sono venti giorni che li mando via, loro cercano di vendermi la roba ma resisto, ma a che serve se rimanendo in questo buco vengo trattata da tutti peggio di una bestia».
Il Cobra stava fremendo: «Prenditi almeno le cose che valgono».
«Tutto quello che ho di valore è sopra di me ed è questo».
Lo disse sfiorando la collana di perle con la mano; poi, il suo sguardo incrociò quello di lui. A quel punto, notò che indossava lo straccetto che le aveva regalato dopo le sue ripetute richieste.
Aveva una strana storia quella maglietta, si sapeva che era giunta dalla Germania; che un misterioso iraniano l’aveva consegnata a un giovane triestino il giorno prima del suo rientro in Italia. I due, avevano condiviso la stessa stanza per un paio d’anni e il loro dialogo, si era sempre limitato ai soliti discorsi: calcio, donne e poi ancora calcio.
Al momento della partenza, l’iraniano consegnò lo strano indumento, racchiuso in una busta di nailon al suo ospite, e gli raccomandò di usare la massima attenzione quando avrebbe dovuto cederlo a sua volta.
Quel triestino, il nostro inviato lo incontrò come al solito per caso, mentre, alla guida delle rispettive vetture, percorrevano la strada per Longera. Si incrociarono una sera su quella stradina stretta e tortuosa che di solito evitava. Il tempo trascorso lontano da casa doveva aver influito sulla sua percezione del percorso poiché, sfrecciando accanto gli sbriciolò lo specchietto. Considerata la velocità folle che teneva, difficilmente l’avrebbe raggiunto, per cui rimase sorpreso quando vide nel retrovisore che, caso più unico che raro, rallentava per accostare. In seguito gli telefonò più volte per farsi risarcire il danno; infine, stufo delle sue vane assicurazioni, un mese dopo l’incidente decise di recarsi da lui. Il giovane lo fece accomodare con grande gentilezza e, dopo una breve discussione, ottenne una ammissione di responsabilità. Così, pago della vittoria verbale, accettò la sua proposta di prendere un caffè. Intavolarono quindi una conversazione che ben presto scivolò su altri temi.
Parlarono del crollo delle ideologie politiche, della perdita dei valori, della fede e del buio tunnel in cui, secondo molti, l’umanità stava per entrare. Sondando il suo pensiero, notò che intravedeva uno spiraglio di luce; si trattava della stessa luce che il caso, a sua insaputa, aveva acceso.

A un tratto il giovane si mostrò pensieroso e, dopo essersi scusato, si allontanò rapidamente per ritornare dopo qualche istante con un involucro. Allungò il braccio senza una parola, incuriosito, infilò la mano nel sacchetto di plastica che gli porgeva e ne tolse una maglietta senza pretese, bianca ma con dei simboli particolari: una croce capovolta e il numero 666 in nero.   A questo punto, sorridendo, chiese il motivo di quel gesto e la storia dell’indumento. Dapprima tentò di eludere la richiesta, forse a causa dei numerosi ospiti presenti ma poi, vista la sua insistenza, riferì quella strana storia e concluse dicendo che la sua decisione di consegnargliela era dovuta a un improvviso impulso irrefrenabile di liberarsene.
«Potrai farne ciò che credi ma fai attenzione, se dovrai cederla, bada a chi la darai, – aggiunse evitando di guardarlo negli occhi – anche se penso che saprai usarla nel modo migliore, anzi… ne sono certo.»
Al ritorno rifletté sull’accaduto, alla sua strana raccomandazione e alla curiosa circostanza che fosse stato proprio un iraniano a fargli quel regalo così particolare. Quel dono insolito, che incautamente era stato attribuito a un iraniano, gli riportò alla mente l’incontro, avvenuto qualche anno prima, con alcuni studenti di quel lontano paese.
C’era un filo occulto che legava i due episodi tra loro e prima o poi quel filo sarebbe stato trovato. Fatti che accadevano in tempi diversi si rivelarono utili per comporre il Disegno che lui creava e che avrebbe mostrato agli altri perché potessero contemplarlo. Quel giorno lontano, dunque, andò al Lazzaretto con uno scopo speciale; incontrare degli studenti iraniani che frequentavano l’Università locale, per trasformarli in ignari ambasciatori di un originale pensiero esoterico.
Tornando al loro paese in guerra, avrebbero raccontato quello che uno strano tipo, accompagnato da due suoi amici, aveva loro dichiarato: «Komeini non è il dodicesimo Imam come da molti sostenuto e atteso; l’Imam, che la corrente sciita dell’Islam indica nascosto, è in procinto di ricomparire per indicare il fine ultimo della Creazione: l’adorazione di Dio o, per usare una definizione più efficace, ’ibàda. [Nota 8] Egli vive all’insaputa di tutti in Territorio e, secondo alcuni mistici, un giorno non lontano, darà altre e più terribili prove della sua presenza.» [Appendice 4]
Per dare maggior incisività a quelle parole, pronunciate in presenza di Gianni e Sergio, aggiunse che nel mese di maggio il Capo della Chiesa di Roma sarebbe stato colpito.
Si era alla fine di aprile del lontano 1980 e, mentre si tornava in città, rimase in silenzio tutto il tragitto. Cercava forse di visualizzare l’attentato che nei giorni immediatamente successivi si sarebbe compiuto a Roma in piazza San Pietro?


Uscì a sua volta sul pianerottolo dove sostavano alcuni agenti. Il programma che avevano stabilito il giorno prima era saltato, sarebbe andato a prendere le sigarette dal tabaccaio.
Scese lungo la rampa di scale e un agente che stava salendo i gradini due a due, incrociandolo afferrò il suo braccio: «Senta, lasci perdere, ci guadagna in salute se va via ora, non la identifichiamo. Per quella non c’è più niente da fare.» Il consiglio ipocrita del tutore dell’Ordine lo riempì di furore ma si girò verso di lui ostentando la massima tranquillità.
«Ma si rende conto che lasciarla senza un punto di riferimento ora che ha scelto di fuggire da questo posto significa tradirla. Farla restare in questo tugurio pieno di ratti è una sconfitta per chi la fa rimanere e io non combatto per perdere…»
Cosa ne puoi sapere tu dello splendore raggiunto dalla sua anima, se solo ne ricevessi un barlume ti inginocchieresti ai suoi piedi.” – Pensò con tristezza. –
Avrebbe forse dovuto urlarglielo in faccia ma si limitò ad aggiungere: «Non posso farlo, a ogni modo me ne vado.»
Il tempo per andare a casa e tornare con un pretesto – valutò rapidamente – sarà minore di quello che serve per convincere chi ritiene giusto ostacolarmi con la minaccia dell’identificazione.
Però aveva pericolosamente sottovalutato il Cobra.
Al suo ritorno, la trovò seduta sulla sedia in posizione innaturale, con il capo sul davanzale e gli occhi chiusi. Quel serpente le aveva procurato delle pastiglie con lo scopo di attenuarne la volontà, così da renderla un burattino nelle sue mani. Era furibondo ma non lo dava a vedere e pensò a una possibile soluzione.
Forse ora ti frego, Serpe maledetta.
«Ascolta, vado a chiamare l’ambulanza, sta male, ed è meglio farla vedere da un medico.»
«Hai sentito? Vuole chiamare il dottore, Laura… mi senti?… È finita, non deve farlo… lui non sa… diglielo anche tu.»
Quel viscido individuo era rivolto verso di lei ma pareva parlasse da solo. Scese di corsa le scale per telefonare. Dopo pochi minuti, l’equipaggio di un’ambulanza al completo, entrò nella misera stanza. Lei cercò di assumere un atteggiamento cosciente di rifiuto poiché nel suo intimo conservava ancora un fiero orgoglio e questo non le permetteva di accettare la falsa pietà delle strutture pubbliche.
Fu sottoposta a un breve controllo, dal quale non risultò nulla di allarmante. Al termine dell’intervento, prima di andarsene assieme ai sanitari, gli agenti nel frattempo sopraggiunti, lo convocarono per le diciassette al vicino commissariato di San Sabba. Dissero che doveva presentarsi per giustificare la telefonata al pronto soccorso. Rimasti loro tre, il Cobra lanciò la sua sfida: «Devo parlare da solo con lei, la conosco più a lungo e sono suo amico al pari di te.»
Gli sembrò un errore voler imporre la sua presenza, poteva essere controproducente per la decisione che Laura avrebbe eventualmente preso. Doveva vincere da sola e, per farlo, era sufficiente non si lasciasse più ingannare. Si allontanò nuovamente e tornò dopo oltre venti minuti. Aprendo la porta la Serpe gli richiese altro tempo, altri trenta minuti. Rifiutò decisamente.
«Ora basta, non c’è più tempo da perdere con i tuoi pretesti.»
«Ma dobbiamo fare in modo di depistarli» sibilò.
L’intensità con la quale pronunciò quella frase inaspettata e priva di ogni relazione con gli argomenti in questione, lo spaventò. Che diavolo gli passava per la testa e cosa doveva simulare?
«Ma che stai dicendo?» chiese allarmato.
A vederlo non sembrava per niente ubriaco, se stava vaneggiando era probabilmente per il timore che la strappasse alle sue grinfie. Era certamente così, non aveva raggiunto la quarantina ma sembrava suo padre e poi, come avrebbe potuto continuare a toccarla durante il sonno innaturale provocato dai farmaci assunti in dosi massicce.
Lei lo aveva confidato tempo prima ma era anche riuscita a tranquillizzarlo dicendo che nessuno avrebbe più potuto esercitarle quel tipo di violenza. Le sarebbe tornato alla mente l’oltraggio subito quando era poco più che una bambina e lei sarebbe diventata una tigre per questo.
«Senti, ma vuoi spiegare chi e perché vorresti depistare? Di cosa hai paura?… Di chi?…»
«Non sembra strano pure a te – rispose rivolto verso Laura – che questa mattina la polizia sia venuta proprio da noi, chi può avercela mandata… sei stato tu!»
La sua non era più una risposta, era una accusa.
«Tu devi essere impazzito se cerchi di farle credere una simile idiozia.»
Laura alle sue spalle stava armeggiando con un blister, lo notò l’attimo prima che avvicinasse la mano alla bocca per ingerire delle altre pastiglie. Non fu rapido quanto necessario per impedirglielo. Ne aveva assunte altre dodici con un gesto fulmineo. Per un istante sperò assurdamente che quel veleno potesse rallentare il vortice dei suoi pensieri, delle sue reazioni, così da consentirle finalmente di decidere in piena autonomia. Passarono pochi minuti, il campanello gracchiò lamentoso e si sentirono dei colpi frenetici alla porta; la Serpe stava china sul fornello accanto alla finestra, si rizzò di scatto. I sanitari erano tornati e si affollarono tutti nella misera stanza guardandosi attorno.
«Dobbiamo effettuare ulteriori controlli previsti per legge.»
Il tono brusco del medico, lo stesso del primo intervento, era fuori luogo e altrettanto lo era quella strana procedura. Comunque riferì subito che Laura aveva appena ingerito altre dodici Dividol. Era più teso delle corde di un violino, lei lottava per raggiungere la Porta e un vento infernale la ricacciava indietro, strappando ogni arbusto su cui si reggeva.
«Non è in grado di connettere in certi momenti, credo sarebbe meglio ricoverarla.» – Suggerì con tono supplichevole. –

Impiegarono quasi quaranta minuti per convincerla a seguirli. La lasciò nuovamente sola. Fu un errore?… Fu il loro tempo scaduto?… L’ambulanza si allontanò e guardò l’ora, le diciassette! Doveva recarsi al Commissariato, inutile chiedersi il perché di quella insolita formalità burocratica. Per quale motivo dover giustificare una richiesta di soccorso al 118? Non era possibile che una telefonata alla croce-rossa in quelle circostanze si potesse configurare come reato.
Erano con tutta probabilità vere le parole del tipo che occupava uno di quegli squallidi alloggi: «Da quando frequenti questa casa, essa viene costantemente sorvegliata.»

Forse il reato cercavano di confezionarglielo addosso su misura?
Terminata la deposizione, raggiunse l’ospedale. Il ruggito della moto non servì ad attenuare l’ansia. Troppo tardi… era già stata dimessa! Non aveva previsto la cosa più ovvia: che se ne sarebbero lavate le mani con quella rapidità.
Le leggi degli uomini, fondate soprattutto sulla indifferenza, lo permettevano. Ora vagava chissà dove, sola! Desiderò con tutte le forze che ricordasse la sua promessa: “Se anche non mi vedrai, io ti sarò sempre accanto, veglierò su di te come sul fiore più raro, affinché la tempesta non lo possa strappare, né il sole bruciare”.
Povero angelo, tentava di prendere il volo ma era stata calpestata da tutti, le sue ali erano state strappate e la sua veste infangata. Ora stava salendo da sola il suo Golgota, avrebbe dato anche la vita per portare la sua croce ma non avrebbe voluto e lui questo lo sapeva.
L’istinto lo spinse a correre nel locale di un certo Cece per vederla passare ma poi non rimase sul posto; era come voler infliggere altra inutile crudeltà alla sua anima e allora andò rassegnato lentamente verso casa.
Lei quel giorno, così raccontò in seguito Cece, giunse al bar pochi minuti dopo che ne era uscito. Non era mai stata vista in quelle condizioni, il pianto e la disperazione di quei momenti, erano stati così devastanti, che il suo sguardo aveva lasciato un’amara sensazione nei presenti. Era stata vista scendere barcollando i pochi gradini e avvicinarsi al barista indaffarato dietro al banco.
«Ciao Cece, devo parlarti del tipo che sai, ascoltami un momento per favore.»
L’uomo sulla cinquantina era basso e tarchiato, era gratificato dal fatto che lo si credesse un ex legionario, un duro. In quel momento, stava servendo dei clienti, per cui girò appena la testa annuendo sbrigativo.
«Ciao Laura, devi bere?» Senza attendere risposta allungò la mano e riempì un bicchiere.
«Ho detto che ti voglio parlare, hai capito? Qualcuno deve ascoltarmi! – disse battendo il pugno sul banco – Guarda le mie braccia! – continuò, sollevando le maniche della camicetta – Come può pretendere tanto, proprio da una come me… lui, lui vuole che non fumi, che non beva, lui da me vuole proprio tutto… mi capisci?»
C’erano troppi avventori in quel momento, Cece non poteva ascoltarla come era solito fare e le accostò più vicino il bicchiere di vino; quella sera Laura uscì dal locale senza berlo. La sua coppa la versò a terra quasi completamente e poi la posò sul banco.
Per tutti si trattò solamente di un gesto sbadato ma solo a chi ha già versato il suo calice, appare chiaro il significato occulto di quella circostanza. Lei uscì dal bar senza neppure alzare lo sguardo e nessuno dei presenti immaginò l’altezza che la sua anima aveva ormai raggiunto. Laura, quando giunse davanti alla Porta invisibile, lasciò anche lei il suo cuore lì accanto e tornò per voi.
Lo stesso giorno della perquisizione, al mattino, le sue parole erano state illuminanti: – Cosa mi si chiede, urlò sconvolta dalla muta domanda che nessuno in quella stanza le aveva fatto; era una richiesta dello Spirito che solo la sua anima poteva udire. Io che non vedrò mai il mio bambino, di pensare ai bimbi di tutto il mondo? Lasciami perdere, hai capito? –
Gridò la sua profonda angoscia e si accasciò sul divano sdrucito, poi sussurrò in tono di resa: «Non servo a niente sai, vai via, ti prego, con me perdi il tuo tempo, non venire mai più… mai più».
Le sue ultime parole furono scosse da singulti disperati. Rimase in silenzio ma non la abbandonò, non doveva assecondarla, altrimenti avrebbe determinato la sua sconfitta.
“Sono certo che l’amore, nella sua espressione più alta, prima o poi vince. Laura deve vincere per voi, nessuna può farlo al suo posto, nemmeno la mia compagna”.


Era giunto a casa, Laura si sarebbe trovata davanti a una Porta che si apre in ogni direzione e avrebbe potuto scegliere di entrare nel Giardino di Dio, e lui, nel suo giardino decise di attenderla. Le avrebbe parlato da uomo e sarebbe stato doloroso farle capire che come donna non avrebbe potuto condividere con lui la sua esistenza.
Da dietro la folta siepe aveva scorto la vicina e il suo compagno. Attendere impotente non è mai stata la sua specialità, doveva sciogliere la tensione e andò verso di loro per scambiare qualche parola. Da lì riusciva a vedere il cancello nel caso fosse sopraggiunta Laura.
Avvicinandosi lentamente, guardò con insistenza Elena e Tony. Era incerto, non sapeva a chi dei due rivolgersi e così le parole scivolarono da sole: «Ciao Elena, ti ricordi che due anni fa parlammo dell’assessore mentre mi occupavo del giardino? Tu ritenevi assurdo che un inquilino si sobbarcasse un tale impegno e io replicai con quelle macabre parole che non avevano alcun nesso col nostro dialogo.
La previsione che ti feci in quel momento la riferisti in seguito a un giornalista di Reporter, ricordi? – La donna conservò in silenzio uno sguardo perplesso e lo lasciò proseguire. – Dicevo più o meno così: “Trascorsi dieci giorni, finito questo lavoro che sembra interminabile, rivolgerò l’attenzione sull’assessore per certificarne la fine, affinché sia chiaro che non si è liberi di assistere indifferenti quando la vita degli altri è in pericolo.”

Quel giorno stavi rincasando mentre io toglievo le erbacce, in quel momento ricordai di averlo inutilmente pregato di intervenire affinché Giada non dovesse più respirare le esalazioni della canna fumaria difettosa. La sua risposta non avrebbe potuto essere più cinica e insensibile: “La salute di sua figlia non mi riguarda“. Considerando ciò di cui doveva occuparsi per conto dell’Istituto, quel camino difettoso appunto, che aumentava la frequenza e la gravità delle crisi d’asma di Giada, era di sua esclusiva competenza. Fu proprio il cinismo, la via che quella sentenza di morte usò per uscire dal suo intimo più profondo; ed è una sentenza perenne che colpisce ogni essere immondo».
I due non commentarono l’uscita per cui continuò con aria assente il suo monologo: «Ho previsto giusto allora e non sbaglierò nemmeno questa volta; morirà anche la ragazza che l’altra settimana hai visto entrare nella mia casa. Dicesti di conoscerla, che era la sorella d’un amico di tuo figlio… ma questa volta non passeranno dieci giorni, a lei succederà molto presto.»
Elena e Tony, era giusto aspettarselo, lo guardarono senza nascondere la loro perplessità. Probabilmente attribuivano allo stress da separazione quel modo discontinuo di affrontare gli argomenti.
“Le mie previsioni sono come i tasselli di un mosaico e li procuro per caso, chiunque voglia entrare nel gioco e divertirsi a comporlo, sappia dar loro la giusta importanza”.
Per i vicini quel pensiero era stato impercettibile, ma non aveva p

iù la forza di ripetersi perché la mente era turbata dall’angoscia per Laura. Tornò lentamente verso casa e ripensò a Gino, che, meno di due anni prima aveva provveduto a eseguire la sua sentenza. Gino “Cugno”aveva eccessivamente pagato per la morte dell’uomo, avevano volutamente ignorato quanto realmente accaduto, in verità, anche in quella circostanza era stato il caso a determinare quella brutta fine.
Un interessante indizio in tal senso, giunse dopo la morte di Gino, dal racconto di un esponente della dissolta D.C, un politico locale che si ritrovò in cella con lui e con lui impostò un rapporto caratterizzato da profonda umanità.
Quella mattina era fermamente intenzionato a vendere, un copia del libro, a un uomo che conversava col suo amico in un bar a Domio; le poche parole carpite bastarono a farlo intervenire nella conversazione. Con ironia, li sollecitò a parlar male dello Stato, era una moda che si sarebbe presto affermata. – affermò soddisfatto – Non diede loro il tempo per mandarlo a quel paese, cominciò subito l’accerchiamento che doveva concludersi con la vendita dell’ultima versione del libro. Terminò la breve presentazione dell’opera con la fosca previsione sull’assessore fatta alla sua vicina. A quel punto uno dei due rivelò la confidenza ricevuta da Gino Cugno nel carcere di Triese: “Lui non voleva assolutamente ucciderlo, è rimasto sconvolto, si è seduto e non riusciva a spiegarsi come poteva essere accaduto, lui voleva semplicemente pungerlo sul sedere per spaventarlo e indurlo ad adoperarsi per fargli avere l’alloggio che chiedeva da tempo. Sono certo che la causa dell’esito fatale sia stato il rapido movimento dell’aggredito, un avversario politico per il quale provavo dell’amicizia; fu fatto d’istinto per attenuare o deviare il colpo ma disgraziatamente lo favorì. Non trovando alcun ostacolo la sua mano armata raggiunse il cuore.”
Tutto ciò sembra voler dimostrare che non si può mai sfuggire al caso, – osservò sorridendo ai due interlocutori. –
Varcando il cancello, un po’ di sollievo venne al pensiero che nel primo caso l’orologio karmico aveva scandito l’ultimo istante, nel secondo, per la dolce Laura, sarebbe stato quello dell’inizio; anche la cinica indifferenza che si annida nella mente di tanti uomini andava tolta come il pietrisco di un giardino ma quello era il progetto del Grande Architetto e a lui, che lo stava realizzando, venivano rivolte le indicazioni, i suggerimenti e le minacce di chi non poteva neppure prenderne visione.
Seduto al tavolo del computer, si ripeteva che mille volte avrebbe dato la vita per lei ma non voleva, né poteva, ribellarsi al Padre. Questo pensiero portava con sé la pace, fare la sua volontà consolava il suo animo. Lo Spirito non la scordava e questo era ciò per cui aveva lottato. Laura, ne era certo, meritava di essere ricordata per quello che è in realtà da sempre, non per quello che era sembrata; la sua capacità d’amare lo esigeva e, riscattando una vita, stava suggellando questo suo diritto. Trascorsi innumerevoli Eoni, si sarebbero ripresentati i secoli di quei mistici e profeti capaci di intuire nuovamente il ruolo della sua Forma.
La sera dopo suonò alla porta di Elena per dirle della morte di Laura, lei vedendo le sue lacrime sembrò turbata e scambiò solo qualche parola.
«Ti eri legato profondamente a quella ragazza vero?» – osservò con l’intento di carpire qualche emozione nascosta. –
«Sì!… E non immagini quanto, con tutto il mio essere. Figurati che la mia mente si rifiuta ancora di crederlo, solo il mio animo sa e con lui lei continuerà a darsi appuntamento sul colle di Monrupino vicino alla chiesetta».
Smise di parlare, convinto che ogni spiegazione fosse inutile, non tutti potevano accettare che Laura, a ogni Eone stabilito dal caso, tornasse a sostenerlo quando la sua compagna, con l’anima ferita, non ci sarebbe riuscita. Non comprese perché non aveva la capacità né la voglia di farlo. Andò lentamente verso casa, adesso era di nuovo solo, il riposo del guerriero era finito. Il 3-6-1995 accompagnò la sua Forma per l’ultima volta. Attorno a lei, quel giorno, c’erano tanti fiori e forse tanto rimorso per non aver saputo aiutarla né capirla. Poco tempo dopo, quando tornò sulla sua tomba, non c’era il petalo di un fiore e non doveva esserci più neppure il rimorso. Piangendo in silenzio, su quella tomba vi posò un giglio. Quel gesto sembrava dettato dalla pietà, è difficile immaginare, senza servirsi dell’intuito, ciò che lo Spirito renderà manifesto: quel fiore rappresenta in realtà un giglio d’acciaio, che farà parte di questa storia e di cui si servirà per colpire chi lanciò la sua sfida proclamandosi l’Anticristo!
Si allude al personaggio che più di altri inoculò il veleno nel cuore della sua sposa e presentò in modo insolito la sua velata sfida. Il giorno che scelse di farlo, Tarzan aveva scaricato sul piazzale davanti casa della legna da ardere. La uno bianca si fermò poco lontano in seconda fila, l’istinto gli suggerì di chiedere l’aiuto dell’uomo che ne era sceso e che ora si avvicinava con passo deciso.
Avrebbe dovuto trasferire quei pesanti tronchi, sul retro del giardino, prima che calasse il buio; uno sguardo verso il sole gli confermò che il tempo a sua disposizione era sufficiente. Iniziò così a lamentarsi della difficoltà a mettere in moto la motosega. Dopo qualche scambio di battute sul problema al carburatore, l’altro improvvisamente cambiò argomento: «Lo sai? Sto cominciando a credere di essere io l’Anticristo e penso proprio di avere un valido motivo, anzi, – aggiunse con tono convinto – sicuramente più d’uno.»
L’istintiva richiesta di ottenere una spiegazione fu ignorata. Ripensò alla sua espressione nel mentre formulava quelle parole per capire se si trattasse o meno di uno scherzo e, considerando l’estrema serietà con cui aveva parlato, concluse che forse qualche motivo per dirlo doveva pur esserci. Provò ripetutamente a insistere per avere qualche chiarimento ma fu inutile. Lui suggerì sbrigativo di andare a bere un caffè all’Hemingway.
Nel fare i pochi passi che li separavano dal bar, Erieder fece una rapida incursione in tutti i suoi file mentali che trattavano di veggenti, profezie e ogni altro indizio per riuscire a correlare la sua figura, che conosceva da anni, con quella dell’Anticristo. Non trovò niente, escluso un breve accenno, tratto chissà dove, in cui si diceva che l’Antilegge sarebbe stato figlio di una prostituta. Comunque registrò nella mente anche quella sua curiosa convinzione, lo Spirito avrebbe suggerito che farne.
Pochi mesi dopo comprese il ruolo che gli era stato attribuito. Il caso faceva apparire i tasselli necessari alla costruzione del Piano nel momento giusto e in numero maggiore. Analizzando le impressioni su di lui, che puntualmente archiviava nel suo inconscio, notò che non differivano dalla sua ipotesi; chi offre solo surrogati di paradiso è veramente la scimmia di un Dio ma, se il suo potere gli permetteva di avvelenare le anime, il suo sarebbe stato quello di renderle pure come l’acqua del ruscello di montagna.
Dopo qualche tempo, riprese a provocare affermando che sarebbe entrato nella sua casa il giorno che “qualcuno” lo avrebbe schiacciato. La sua minaccia, come si vedrà, sarebbe divenuta un’auto condanna. A ogni modo, per capire meglio quella figura, si parlerà dei giorni in cui era prossimo a dare alle stampe la prima versione di quest’opera.
Nel castello di San Giusto, la serata inaugurale del “Festival della Magia” era iniziata da poco, ascoltava distrattamente le parole di presentazione d’un giornalista e, al termine del suo intervento, ci pensò qualcuno a presentarglielo. Come era solito fare, saltò a piedi pari nel tema che gli stava più a cuore. Il giornalista mostrò un vago interesse quando raccontò che, da qualche tempo, si sentivano delle voci riguardo alcuni inquietanti indizi della presenza, in un luogo imprecisato nella immediata periferia di Trieste, di un personaggio che affermava di incarnare la figura dell’Anticristo.
L’uomo gli propose di riparlarne, suggerendo di adottare alcune precauzioni che gli sembrarono del tutto fuori luogo. La sera seguente, per seguire le indicazioni del reporter, valutò necessario servirsi dell’aiuto di Sergio. Nonostante avesse insistito, non si mostrò disponibile; contrariato dal suo rifiuto, si recò a casa di un conoscente che abitava nella zona.
Si trattava di un giovane col quale aveva lavorato per un breve periodo qualche tempo prima, egli proprio in quei giorni gli aveva proposto di aiutare una sua amica dandole ospitalità. Inizialmente parlarono del problema che riguardava la ragazza, poi, ricordò il motivo per cui era andato da lui e gli chiese se era disposto ad accompagnare l’inviato del Piccolo in un luogo prestabilito. Il tipo disse che l’avrebbe accontentato dopo aver chiesto alcune spiegazioni.
«Se ho capito bene, dovrei prendere un taxi e condurlo verso l’altipiano a una certa ora, però non vedo il motivo di tanta prudenza».
Esaurite le sue perplessità, il discorso prese allora una piega completamente diversa. Iniziò a parlare del contenuto del suo libro ma non continuò per molto a esporne la trama perché, allungando la mano verso il bicchiere di birra posto sul tavolo, il giovane cominciò un racconto allucinante: «Il seicentosessantasei io lo conosco sotto altro nome, egli è chiamato l’Anticristo, è qui a Trieste e io ho assistito a eventi eccezionali.»
Elencò quindi i suoi poteri mirabolanti, i fatti cui era stato testimone e le predizioni che il personaggio gli fece. Si soffermò a lungo nella sua descrizione; stranamente corrispondeva perfettamente alla persona che Tarzan conosceva da tempo e, quando chiese il suo nome, si mostrò reticente, però un curioso indizio aveva colpito in modo particolare l’attenzione del nostro Scriba.
«Circa otto anni fa è stato capace di predire la guerra che poi effettivamente scoppiò in Jugoslavia e disse pure che essa avrebbe preceduto un confronto Apocalittico mondiale».
Sapeva di aver formulato l’identica previsione dieci anni prima e di averla confidata a pochissime persone. Tra queste, proprio quel personaggio che trovava diletto a lanciargli delle velate minacce.
Ricordava di avergliene parlato, questo rappresentava ora un indizio preciso, gli permetteva di individuare chi lanciava gli attacchi volti a scindere il suo nucleo familiare. Al momento non ne vedeva lo scopo ma bastava attendere perché anche quel motivo fosse chiarito, come gli era chiaro che si mirava a stroncare la sua indole ribelle. Lui aveva puntualmente riferito la sua previsione e molti altri particolari, di cui era  a conoscenza, ai soliti ignoti? Agli stessi che avevano minacciato la direttrice dell’asilo di Giada e violato la sua casa per poi restituirgli solo le due telecamere? Dovevano essere utilizzate, secondo quanto aveva confidato di proposito a un tipo colluso proprio con quegli ambienti, per mettere a punto un complesso piano di ribellione contro il potere romano, esso prevedeva di separare politicamente l’Italia ed era appoggiato occultamente da potentati economici. Nel frattempo quattro gatti, che sarebbero in seguito divenuti leader della Lega, iniziavano a distribuire i primi volantini. Decise così di stare al suo gioco per scoprire con quale torbido inganno si cercava di ostacolarlo.
Vorrà sembrare il Cristo ma sarà solo la sua Scimmia… Perché sorgeranno falsi Cristi e falsi Profeti e faranno segni e portenti per ingannare se fosse possibile anche gli eletti”.
«Senti, io credo di sapere di chi parli, si chiama…, abita in via San Pelagio, a un quarto piano e la porta del suo alloggio è rinforzata con lamiere di ferro… vero?».
«Sì! È vero. Oltre a ciò che ti ho raccontato devi sapere che, una volta al mese, quando c’è la luna piena, anzi, – si corresse di proposito per sembrare più veritiero – la Luna Nera, durante la notte si reca in Val Rosandra con i suoi discepoli. Posso dirti, ma ti prego di non chiedermi altro, di averlo visto sollevarsi da terra e non potevano esserci trucchi. Credimi» – volle insistere – «sono stato molto coinvolto in questi misteri e ora ho paura, ho una paura fottuta di loro…».
Pronunciò le ultime parole simulando un palese timore.
«In seguito, per le pressioni di mia moglie, decisi di allontanarmi da queste pratiche e rinunciare alla carica che ricoprivo. Non parlai con nessuno della mia intenzione, eppure, lo stesso giorno, il Gran Sacerdote partì da Roma per venire a Trieste e prendere parte alla cerimonia del trapasso dei poteri che mi erano stati, fino a quel momento, riconosciuti».
A quel punto, notò la moglie del suo interlocutore appoggiata allo stipite della porta. Lo sguardo attento gli rivelò che doveva aver sentito l’ultima parte del racconto.
«Parlavamo del libro che sto scrivendo e suo marito stava fornendomi alcuni suggerimenti…».
Era pronto ad andare fino in fondo e, per farlo, era utile scoprire se la donna confermava l’incredibile racconto.
Lui lo intuì, lo fermò con un’occhiata di disapprovazione e allora continuò nella parte del gonzo che crede agli asini che volano cambiando immediatamente rotta: «… stava suggerendomi come proseguire».

Attese che la donna, dopo aver rivolto uno sguardo severo al marito si allontanasse e chiesa una spiegazione: «Perché non vuoi che ne parli?».
«È lei che non vuole toccare più questo argomento».
L’assenza di sincerità era sempre più evidente, attese che tornasse con le tazzine di caffè e tentò di sgretolare la sua posizione con continue raffiche di domande: «Signora, Mauro mi ha confidato di aver fatto parte di una chiesa di satanisti, voglio dirle che apprezzo molto la sua fermezza nel chiedergli di abbandonare quella setta». La donna annuì con la testa, evitando di guardare nella sua direzione. Non capiva se doveva considerarla complice o vittima, dunque, riprese con le domande.
«Però mi lascia perplesso l’uomo venuto da Roma, suo marito diceva che era un tipo sulla quarantina molto elegante, secondo lei corrispondono gli anni?». «Credo di si!». Non se la sentì di continuare e trovò un pretesto per allontanarsi. Subito dopo, il suo ospite, riprese imperterrito il suo incredibile racconto.
«La notte dell’investitura si svolse una messa nera durante la quale possedemmo una donna dai capelli corti e neri, esile e alta circa un metro e “cinquantadue, cinquantatré”. Ne prendemmo possesso esclusivamente noi tre; io, il Gran Sacerdote e lui, quello di via San Pelagio, se poi hai ancora dei dubbi, – aggiunse vedendo la sua faccia impassibile – pensa che l’Anticristo tra i capelli nasconde un segno, i tre sei. Guardando da vicino si vede chiaramente che non sono tatuati; lui dice di averli dalla nascita e chi lo conosce da lungo tempo me lo ha confermato».
Lo ringraziò per le sue “esaurienti” informazioni e, mentre usciva, gli rinnovò l’impegno che si era assunto.
Tornando verso quella che, ancora per pochi mesi, sarebbe stata la sua casa, rifletteva sulla reticenza che aveva saputo simulare ma quello che colpiva maggiormente era la precisa descrizione di sua moglie e la conoscenza, esatta al millimetro, della sua altezza.
Constatò amareggiato l’estrema facilità con la quale si poteva colpire il tallone della sua sposa se i suoi occhi venivano accecati da orgoglio e rabbia.
Infangarla come Laura però non era possibile, lei era la sua compagna, era la sola che aveva voluto un giorno al suo fianco e che doveva attendere. Doveva anche pazientare fino a quando l’Accusatore sarebbe stato smascherato definitivamente; poteva forse esser scritto dell’altro? Perché gli venivano inviati individui con lo scopo di ingannarlo e di farlo crollare? Non aveva forse sofferto abbastanza? Mantenendo la consapevolezza che l’Arma donatagli dal Padre per realizzare il suo Piano, possedeva l’energia della casualità, non sarebbero riusciti nel loro intento.
Alcuni giorni dopo, col pretesto di scusarsi per non aver dato seguito a quanto era stato stabilito col giornalista, tornò da lui per confidargli che nella casa accanto alla sua, da qualche tempo, si faceva vedere una donna che corrispondeva perfettamente alla descrizione che gli aveva dato della Sacerdotessa.
«Devi ammettere che quella storia incredibile merita una spiegazione; se mi concedi dieci minuti con il tuo aiuto riuscirò a trovarla».
«Se posso esserti utile, ma non vorrei avere complicazioni».
Non chiese di che genere temeva potessero essere, tutto teso a seguire il suo piano. Lo pregò quindi di seguirlo per confermare se la persona che in quel momento si trovava nella villetta, accanto alla sua, fosse proprio la satanista da lui indicata.
Arrivati nei pressi dell’abitazione non fu necessario attendere molto, sulla finestra del primo piano si affacciò la figura della donna.
«La vedi bene?… È lei?» «Si!».
«Ne sei sicuro? Guardala meglio, sei certo di non sbagliare?».
«No! Sono certo si tratti di lei».
L’individuo stava dicendo che sua moglie, perché di lei in realtà si trattava, era la Sacerdotessa della Val Rosandra. A quel punto, poteva bastare quanto già sapeva e non pose altre domande. Ringraziò per il suo aiuto e lo pregò di non farne parola con nessuno. Scrutò la sua espressione quando assicurò che avrebbe mantenuto il silenzio e vide il disagio, dovuto alla gravità di quanto aveva detto, trasparire chiaramente.
Lasciò passare dei mesi, il tempo sufficiente perché scordasse molte delle cretinate che gli aveva riferito e tornò alla carica.
Questa volta le cose sarebbero andate diversamente. Iniziò da subito a contestargli una infinità di contraddizioni e di coincidenze che non potevano esser tali, prima fra tutte la misura esatta dell’altezza di sua moglie. Il tono che usava gli fece subito capire che non avrebbe esitato a servirsi delle maniere forti. Considerò quello che si diceva in giro su Tarzan e per un attimo anche la differenza di stazza.
«Sai, – iniziò titubante – non è stata una mia idea, non avrei voluto nemmeno essere coinvolto, ma non ho potuto dire di no». «Dire di no a chi? – Lo incalzò – Chi ti ha costretto a raccontare una simile storia?».
Era tenuto sotto pressione al punto giusto, così continuò: «Ricordi quando ti ho incontrato al bar Hemingway, si parlava dei vecchi tempi e tu hai accennato ai problemi con tua moglie, – senza far caso se annuiva, proseguì a vuotare il sacco. – bene, il giorno seguente, nel primo pomeriggio hanno suonato alla porta. Mi sono trovato davanti due tipi che hanno chiesto di entrare, non si sono nemmeno presentati ma, da come si comportavano, ho pensato fossero della Polizia».
Il racconto iniziava a farsi interessante.
«Hanno chiesto per prima cosa se era da molto che ti conoscevo e mi hanno fatto capire che sapevano molte cose di te. Si sono trattenuti circa una ventina di minuti e davano per scontato che avrei fatto quanto mi chiedevano. Mi hanno chiesto di raccontarti quella storia e di descriverti la donna con un aspetto specifico; sapevano pure, come effettivamente è accaduto, che tu mi avresti indicato una persona, e, a quel punto, io avrei dovuto dichiarare che si trattava proprio di quella che ti avevo descritto. Come ti ho detto la loro sicurezza mi ha impressionato a tal punto che non ho potuto rifiutare. Dovevo avere una Camera di Consiglio proprio in quel periodo e, se non collaboravo, temevo di dovermi sciroppare i mesi che rimanevano da scontare».
Aggiunse ancora molti particolari, quali la targa e il tipo di vettura che si era allontanata subito dopo dalla zona.
Per la sua collaborazione sarebbe stato punito, pochi mesi dopo, in modo crudele e inesorabile per un capriccio del caso. Del fatto, se ne sarebbe occupato anche il quotidiano locale.